Luca Ricci, Gli estivi, La nave di Teseo, 2020, 18 euro
L’estate era l’unica stagione che doveva essere obliata mentre la si viveva, per sopravviverle; al
contrario delle altre stagioni, di cui era bello avere consapevolezza (lo struggimento autunnale, la
letargia invernale, il risveglio primaverile), l’incoscienza era la cifra dell’estate (e uno dei più grandi
abbagli dell’umanità era stato confondere quell’incoscienza con la leggerezza).
Sono tre “C” gli elementi chiave della scrittura di Luca Ricci: combinazione, contraddizione e conflitto. Credo che non si possa comprendere fino in fondo se ci sfugge questa struttura atomica di base. Come il sistema binario, basato sulla semplice alternanza dei due valori numerici semplici 0 e 1, è alla base dell’intera sconfinata capacità di informazione sviluppata dagli elaboratori elettronici, così in Ricci la rappresentazione è costruita su una infinita combinazione e variazione di conflitti narrativi minimi. Se è vero che il conflitto è l’atomo della narrativa in generale, questo vale ancor di più in questo caso. Il vero e il falso, il maschile e il femminile, la vittima e il carnefice, il serio e il faceto, la superficie e il sotterraneo, il principio di piacere e il principio di realtà, il sentimentale e il cinico, il delicato e il greve, la fedeltà e il tradimento, il desiderio e il suo irrimediabile svanire… le due facce della medaglia sfumano l’una nell’altra e costituiscono le particelle elementari di combinazioni che strutturano tutta la costruzione narrativa, in macro e in micro, ovvero nella singola parte come nell’insieme, generando combinazioni via via più complesse ma sempre riconducibili a una configurazione aritmetica o geometrica. Una microscopìa narratologica che è il perfetto corrispettivo della vis analitica che soggiace a tutto questo e che, sotto la veste degli esiti ironici, ne nasconde l’origine: la necessità di afferrare l’inafferrabile della realtà, scomponendola e riordinandola, in analisi condotte con metodo esatto ma con esiti, ça va sans dire, perennemente transitori e contraddittori. È il metodo analitico stesso a rivelare un dna del reale costituito da una infinita catena di conflitti irrisolvibili. Da cui deriva un sentimento di perenne incompiutezza e un rapporto con l’esistenza che è in questo senso prettamente erotico.
Per focalizzare questa natura matematica, basti ricordare l’impeto tassonomico che da una parte permea la struttura esterna delle opere (l’esempio più trasparente: “I difetti fondamentali”) e dall’altra ne muove internamente l’andamento della stessa prosa. Si pensi all’eclatante esempio del “monologo delle tabelline” in Trascurate Milano, quasi una metonimia dell’intera scrittura di Ricci, oltre che una dimostrazione di come lo scrittore pisano dia il meglio di sé non quando scende dal cavallo della sua natura classificatoria, che per altri sarebbe un pesante ingombro sovrastrutturale, bensì proprio quando riesce a domarla e fondersi con questa. Nel racconto milanese Ricci cavalca così a tutta velocità guidato da un impeto cieco eppure lucidissimo, come un centauro in lizza per il Palio di Siena. Che, a guardar bene, è forse esso stesso un fulminante capolavoro del racconto, in forma di cavalcata.
Alla stessa istanza si allinea coerentemente il suo progetto più ambizioso, quello della cosiddetta tetralogia sulle stagioni, complice finalmente un editore che ha perfettamente compreso e assecondato l’esito naturale della progressione geometrica delle forme narrative di Ricci, dal racconto breve al ciclo di romanzi. Inaugurata nel 2018 da Gli autunnali, la tetralogia giunge adesso con Gli estivi al suo secondo capitolo. Al di là dell’evidente natura di una tale costruzione, che mira ad abbracciare tutte le quattro stagioni in un modello di comprensione totalizzante, analitico e geometrico anch’esso, funziona qui anche un altro elemento tipicamente ricciano, per cui si arriva all’adozione di un modello attraverso il rovesciamento di un precedente. Ogni tentativo di comprensione è anche, prima e sempre, la pars destruens di una precedente conoscenza obliterata. Il modello diventa così come un cavallo scosso su si debba far la fatica di tornare in sella. Si pensi in questo caso alla tetralogia classica, composta da tre tragedie e un dramma satiresco finale, e qui ribaltata: si comincia infatti con due romanzi dall’essenza farsesca, e non ci sarebbe da stupirsi – mi lancio in un vaticinio – se tale fosse anche il terzo capitolo, per poi sfociare in quarto e ultimo cimento prettamente tragico. Siamo al perfetto correlativo formale della sostanziale impossibilità della tragedia “in un mondo nel quale i valori non materiali sembrano non aver diritto di esistenza e la coscienza morale si è incallita fin al punto in cui gli uomini si muovono per solo appetito”, come vaticinato da Moravia ormai tanti anni orsono. In questa sentenza potremmo anche sostituire la parola tragedia con la parola amore, e forse per Ricci non ne cambierebbe l’esattezza, ma anzi ci spiegherebbe l’applicazione di una sordina crudelmente sbeffeggiante a qualsiasi idea idealizzata di amore, come a ogni altra idealizzazione.
Ma, dicevamo, Gli estivi. Gli estivi, ovvero quindici estati al Circeo. Una dopo l’altra. Per raccontare un’attrazione fatale che anno dopo anno cambia forma e distanze ma resta incompiuta e più o meno fantasmatica fino alla fine. Protagonisti ne sono il narratore, un funzionario Rai e romanziere di saltuaria ispirazione, e quella che all’inizio della vicenda è una ragazzina in vacanza con le amiche. Lo sguardo lungo quindici estati è però anche un modo per raccontare molto più della storia di un mancato amour fou: il tempo, soprattutto. Le stagioni e le età. Il tempo ciclico delle stagioni che tornano, quasi identiche e immobili, come un temperamento, un colore dell’anima, un particolare destino; e il tempo lineare delle età, che trascorre impietoso, cancella sogni e speranze, incatena a terra i voli del desiderio, consuma i corpi, impoverisce l’uomo dell’unica cosa che veramente possiede: il tempo, appunto. Lo diceva Seneca, io mi limito a dargli ragione. Forse anche Ricci.
Anche ne Gli estivi, sin dalla struttura, c’è subito un doppio rovesciamento (consapevole o inconsapevole, poco importa): di quel modello di educazione sentimentale contemporanea che fu una decina di anni orsono Dieci inverni di Valerio Mieli (e il libro e il film) con la storia d’amore tra i protagonisti centellinata per episodi casuali in dieci inverni successivi, “la storia – come l’ha definita lo stesso Mieli – di un anti-colpo di fulmine”. Quando invece proprio di un colpo di fulmine, enormemente dilatato fino all’eccesso, fino al punto da trascinarsi senza mai trasformarsi in altro, racconta Ricci, centellinando i suoi episodi nelle sue quindici estati. Il rovesciamento inverno-estate è sin troppo elementare da individuare, ma ha sue ragioni più profonde in questa opposizione dell’essenza delle due stagioni, rispettivamente del pieno e del vuoto:
L’inverno […] è il momento dell’anno in cui succedono le cose. L’estate invece è sempre
una parentesi, non importa se dura quanto le altre stagioni.
Non importa se altrove nel libro l’inverno è definito la stagione della letargìa; fa parte del gioco dellle contraddizioni.
Come ne Gli autunnali, ma in forma più trasparente, tutta la costruzione narrativa gira intorno a un fulcro geometrico semplice, a tre vertici: eros, tempo e letteratura, tre termini che sono allo stesso tempo soggetto, oggetto e unità di misura dell’interrogazione l’un dell’altro. Questi tre elementi sono a loro volta mossi dal vivificante contrasto interno tipicamente ricciano: tempo lineare vs. tempo ciclico; amore idealistico (o tragico) vs. amore realistico (o satirico); letteratura necessaria vs. letteratura autoreferenziale (ma quest’ultima definizione dei termini in contrasto è frutto di una mia eccessiva semplificazione dovuta alla necessità di sintesi). Una vera ossessione, un vero accanimento allo smontaggio verso l’infinitamente piccolo. Analogamente al fotografo di Blow Up, che al termine di una lunga catena di ingrandimenti trova un’immagine della morte (e ditemi se non è una metafora micidiale di ogni cosa), in Ricci, se si ingrandisce un’immagine all’infinito siamo sicuri di trovare un conflitto dueale, una contraddizione, un’endiadi.
Nel racconto di quello che potremmo definire un lunghissimo lampo senza fulmine, Ricci distende ancor più del solito la sua, corrosiva, fino al parossismo, verve da moralista contemporaneo, trasformando la narrazione quasi in un quaderno di glosse a due voci (quella del protagonista e quella dell’amico Lello, prototipo dell’editore indipendente diviso tra eroismo e disincanto) e sciorinando tutto il suo armamentario stilistico, per un controllo magistrale della tensione narrativa, poco appoggiata sugli sviluppi della fabula e tutta invece accesa dal racconto interiore. Quello di Ricci è un grande stile composito. Nel suo divertito controllo del ritmo c’è quasi una attitudine pugilistica: le elencazioni iperboliche sono le serie ai fianchi; gli squarci visionari sono i montanti; gli aforismi sono i colpi da k.o, e sono tantissimi. Il lettore, se non scappa, non può evitare di finirne in balìa, alle corde.
Le glosse all’osservazione della realtà dispiegano una forma di conoscenza sempre iperbolica, supersimbolica. Non è una novità. Si pensi a Roma e Milano nei suoi diversi lavori, o alla stessa filosofia delle stagioni centellinata senza soluzione di continuità in questi primi due capitoli della tetralogia e, in generale, al significato degli eventi e al temperamento dei personaggi. Tutto nelle mani di Ricci diviene subito categoria. Categorie che prendono la loro forza da un’enunciazione assertoria e provocatoria, aforismatica per natura, che le fa apparire verità immodificabili ed eterne, salvo poi bernhardianamente contraddirle con una analoga nonchalance apodittica. Come nel caso dell’inverno rilevato poco sopra. Nel suo piegare la realtà verso l’iperbole dei significati, che è quasi un’alzare le mani in partenza di fronte alla spiegabilità dell’esistenza, alla reale possibilità di trarne alcuna lezione, Ricci mette in scena insieme così, inscindibili, la volontà e il suo scacco e materializza un’ironia che, più che del soggetto, appare come dentro le cose stesse. È il mondo a essere ironico, senza via di scampo. Lo scrittore non può che onestamente, o disonestamente (ma, nel caso dell’ironia spinta agli estremi, c’è differenza?), accordarsi o scegliere di chiudersi in un onesto (quello sì) silenzio. Da questa consapevolezza proviene anche il sarcasmo dispiegato a piene mani sulle ambizioni letterarie di chicchessìa, quasi fatalmente destinate al fallimento. Il compito è affidato alle tragicomiche liste di Lello, tassonomie paradossali di tutte le specie di editori, di scrittori, di critici, di lettori e di generi letterari. Enumerazioni immaginifiche che scandiscono la struttura del romanzo, al pari dei sogni a occhi aperti del protagonista e dei dialoghi filosofeggianti su amore, tempo, vita, stagioni, relazioni umane e quant’altro.
Nel complesso l’estate di Ricci mette a fuoco la tragedia di vivere in un mondo in cui la tragedia è impossibile e in cui l’amore è tanto necessario quanto impraticabile, la letteratura fondamentale quanto comunemente velleitaria e la verità ti spalanca davanti agli occhi, con cinismo mai trattenuto, la risata amara di chi riconosce la vanità di ogni cosa. Gli estivi rivela chiaramente al Poeta che ha sbagliato obiettivo e sovverte anche la sua sentenza: non è Aprile il mese più crudele. È Agosto.