Bob Dylan e Neil Young
Nelle ultime nostre riflessioni su queste colonne, parlando della stanchezza della musica al tempo della pandemia, avemmo a citare Dylan come protagonista per certi versi inatteso del periodo del virus.
Dopo un paio di inediti, non necessariamente realizzati in tempi recenti, esce ora persino un album, cosa che Dylan non faceva vedere dal 2012 almeno. Il mood è un po’ quello già estrinsecato in Murder Most Foul, ovvero quella che pare una riflessione sullo Zeitgeist attraverso le dodici battute del blues. Chiudendo gli occhi sembra quasi di mettere sul piatto il vinile di Highway 61 Revisited per quanto è watersiano, nel senso di Muddy, il tutto. Un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbio canta Robert in False Prophet, dicendo che va solo dove i solitari possono andare. Un Dylan che passa il Rubicone e saluta uno dei suoi penati, Jimmy Reed. Un vecchio nuovo Dylan, senza tempo per definizione in un tempo senza tempo.
La cosa buffa è che, quasi nello stesso tempo e probabilmente per motivi legati alla stasi di tante registrazioni, salta fuori un nuovo vecchio Neil Young, la tessera mancante del domino tra Harvest e Comes a Time. La tessera si chiame Homegrown, rimasta nei nastri e solo in parte approdato in altre copertine, finita nella tasca di un periodo difficile da un punto di vista personale per il rocker di Toronto, seguito alla nascita del figlio affetto da paralisi celebrale. Un taccuino pieno di dolori, tutto una dolce constatazione di sconfitte nella quale si piange, si prega e non si dimentica il futuro. Come si diceva in quelle nostre ultime riflessioni, da questi anziani musicisti apprendiamo una lezione sulla spossatezza della musica che fa di Young e Dylan i più moderni tra i trapper. Questo è bello.