Addio Philippe
Ad aprile 2015 ero fuori dal Mudec a Milano. Avevo appena assistito all’inaugurazione del Museo voluto dall’allora Sindaco Pisapia e sostenuto dal Sole 24 Ore. Ero uscito per fumare una sigaretta, ma ero senza cartine. Chiedo a un ragazzo di circa vent’anni che me ne dà una delle sue e mi chiede se il mio tabacco sia buono. Gli dico che se mi dà un’altra cartina gli faccio provare il mio tabacco che è il migliore in assoluto. Il ragazzo è sospettoso.
Con un ritardo eclatante sull’orario ufficiale dell’inaugurazione vedo arrivare Philippe Daverio. Lo saluto e dico al ragazzo: “Chiedi a lui se questo tabacco è buono”.
Philippe apre il pastrano e tira fuori da una tasca della giacca lo stesso mio tabacco e dice al ragazzo: “Questo tabacco è il migliore. Non si secca quasi mai e ha un aroma fantastico. Il motivo è che è fatto da una fabbrica di tabacco per pipa”.
Lo sapevo perché qualche anno addietro, a Firenze, avevo convinto il professor Daverio a fumare proprio quel tabacco. Alla fine non è che fumasse sul serio, il professore. Diciamo che amava intrattenersi con questi cilindretti accesi in mano; ogni tanto li portava alla bocca, ma rarissimamente inspirava. Era più un vezzo che un vizio. Daverio amava piacere. Non era un intellettuale-ruspa di quelli che vogliono convincere alzando la voce; non era un accademico che vuole obnubilarti con l’erudizione; non era un conversatore pedante. Aveva la rara capacità di entrare in sintonia con l’interlocutore, una dote che non so se abbia sempre avuto nel sangue – come si dice – oppure se l’abbia acquisita col Sessantotto milanese, a furia di assemblee, quando finì tutti gli esami alla Bocconi e poi si dimenticò di presentare la tesi di laurea…
Sempre nel 2015, a giugno, lo convinsi a partecipare al Festival del Viaggio a Palermo (la città dove aveva la cattedra di disegno industriale), così si presentò in una delle sue migliori mise di sempre a raccontare “Il secolo spezzato delle avanguardie”, al Museo della Marionetta, dove spesso facciamo eventi del festival.
Tra le altre volte in cui ci siamo incontrati nelle sue peregrinazioni fiorentine (era direttore di Art & Dossier, che curava con il bravissimo Claudio Pescio), mi fa piacere ricordare una due giorni nel 2013. Avevo organizzato un Traveller Show alla Sala Ferri di Palazzo Strozzi e volevo dare l’onorificenza di socio ambasciatore della Società Italiana dei Viaggiatori a Daverio. Dopo altri “ambasciatori” (Dacia Maraini, Franco Cardini, Patrizio Roversi, Beppe Severgnini, Lucia Goracci) anche Philippe doveva avere la nostra pergamena. Così organizzai una conferenza dove lui era sollecitato da alcuni importanti intellettuali fiorentini, come Cristina Acidini, Gloria Manghetti e Wlodek Goldkorn.
La sera (in collaborazione col Gabinetto Vieussuex) ci prendemmo il gusto di organizzare una cena fantastica per pochi eletti con un unico tavolo al piano nobile di Palazzo Bartolini Salimbeni, con le finestre proprio in faccia alla Chiesa di Santa Trinita. Una super cena che sarebbe dovuta cominciare alle 20:30, ma che cominciò con molto ritardo, perché Philippe era sparito…
Conclusa la conferenza Philippe si era allontanato con qualche scusa e dopo che tutti avevano fatto le chiacchiere finali di rito, in vari capannelli nel chiostro di Palazzo Strozzi, dopo che i convenevoli e i saluti avevano avuto luogo ed eravamo rimasti in pochi decidemmo che era ora di andare a cena. Ci guardammo intorno, ma Daverio non c’era. Provai a chiamarlo al cellullare. Niente.
Qualcuno disse: “è andato in hotel”. Qualcun altro: “ha detto andava al bar”. Altri: “Andava al tabacchi”…
Aspettammo un po’. Poi decisi di andare a cercarlo. In hotel non c’era; al bar nemmeno; neppure al tabacchi. Giravo come un disperato quando mi affacciai in piazza della Repubblica. Sentivo il suono di una fisarmonica e mi venne da voltare l’angolo. Era ormai buio. Philippe, tutto imbacuccato, con il suo cappello in testa, era lì davanti al suonatore di strada, unico spettatore incantato dalla fisarmonica. Non mi venne di dirgli nulla. Mi misi accanto a lui ad aspettare che il busker finisse il suo pezzo. Philippe mi sorrise e mi disse qualcosa su quel brano musicale che ora non ricordo e ci incamminammo verso la cena.
Tuttavia la serata, che a cena era stata stupenda, continuò ancora nella notte. Philippe non aveva sonno e voleva continuare a chiacchierare. Così costringemmo quelli delle Giubbe Rosse a non tirare giù la serranda, nonostante fosse mezzanotte passata. Ci sedemmo nel dehor e Philippe cominciò a concionare di cocktail, salvo poi prendersi la camomilla calda col gin! Diceva essere la cosa migliore prima di andare a letto…
C’eravamo conosciuti molti anni prima con Philippe Daverio. Erano gli anni delle giunte dei professori, cioè il secondo lustro degli anni Novanta. Con l’amico Omar Calabrese avevamo messo in piedi l’associazione City Club che radunava i più importanti assessori alla cultura d’Italia e Daverio era con noi. All’epoca faceva parte della Giunta Formentini a Milano.
La morte è di una noia mortale e andarsene a 70 anni non piace a nessuno. Philippe amava la vita e la bellezza e per quel che mi riguarda non è morto. Resterà nei pensieri di tante persone che come me l’hanno conosciuto e apprezzato per le sue doti umane. Quelle artistiche e intellettuali le conoscevano tutti, anche chi lo guardava soltanto in tv spiegare (sì, spiegare, cioè squadernare, aprire con un grimaldello e rendere chiaro, non semplice, ma chiaro) l’arte e gli uomini che la fanno. Ma Philippe era coltissimo. Le sue conoscenze della storia e della geografia europee, dell’antropologia dell’Africa e dell’Asia, dell’etnologia dei Paesi che si affacciano sulla catena montuosa delle Alpi facevano rabbrividire, tanto erano vaste e profonde.
Che tristezza sapere di non poterlo più incontrare. Piange il cuore.