Recovery fund all’italiana…
La prima proposta di “Fondo di Recupero” per tutta la UE fu fatta dalla Francia, nel maggio scorso, e poi sostenuta anche dalla Germania, con 500 miliardi di euro, ma tutti a fondo perduto. Si trattava sostanzialmente di mutualizzare il debito per la ricostruzione post-Covid-19, con un meccanismo che vedeva (e vede) la Commissione Europea prestare e/o donare capitali ai vari Paesi UE, prendendoli dal consueto mercato finanziario. Il bilancio UE è stato comunque fissato, per il prossimo anno, a 1074 miliardi di euro. Vengono quindi emessi dalla Commissione (la BCE non ci deve entrare, per Statuto) dei Recovery Bond, garantiti dallo stesso bilancio europeo, che però non mutualizzano, ovviamente, il debito pregresso degli Stati.
Oggi tutto il Recovery Fund vale 750 miliardi di euro con 390 miliardi di sovvenzioni e 360 di prestiti. L’arrivo dei primi capitali ai Paesi UE è previsto per il secondo trimestre 2021. La valutazione dei progetti dei Paesi UE è a totale carico della Commissione Europea, che si esprime a maggioranza qualificata su ognuno di essi, singolarmente presi, entro due mesi dalla presentazione. La Commissione, inoltre, richiederà al Comitato Economico e Finanziario un parere vincolante sul raggiungimento dei target, intermedi e finali. Se uno o più Stati UE riterranno che vi siano gravi scostamenti tra il finanziamento e l’entità del target, la Commissione non prenderà decisioni fino al termine della querelle (che può durare al massimo tre mesi) e non autorizzerà alcun pagamento.
L’Italia avrà 208,8 miliardi, suddivisi tra i 127,4 di prestiti e trasferimenti per 81,4. I miliardi “gratis” erano, all’inizio, 90. I programmi di massima oggi disponibili, da parte del Governo italiano, sono sostanzialmente aria fritta. Ma anche l’UE non scherza: ci ha richiesto soprattutto di “sostenere la ripresa economica” (quale? Esiste?) e di “incrementare gli investimenti” (con quali capitali?). Poi di “fornire liquidità all’economia reale”, magari evitando le ridicole garanzie statali per i prestiti bancari ai privati in difficoltà e, infine, di “migliorare il funzionamento del sistema giudiziario”. Vasto programma, avrebbe detto De Gaulle.
I dissidenti dell’URSS definivano la propaganda del regime sovietico lingua di latta in una bocca di legno. Definizione che vale anche per questi documenti da tecnocrati tontoloni. I cluster di intervento italiani sono, comunque, sette: digitalizzazione e innovazione (quali? dove?) rivoluzione verde e transizione ecologica, competitività del sistema produttivo, infrastrutture per la mobilità, istruzione e formazione, equità e inclusione sociale, salute. Tutte belle parole, ma senza la minima precisazione. Qualcosa di più chiaro arriva alle pagine successive, con la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, la banda larga su tutto il Paese e la rete completa del 5G, poi si ricade sulle banalità generiche e si parla di “digitalizzazione delle filiere strategiche”, ovvero agroalimentare, industriale (troppo generico) e turistico. Ma non si era detto che i soldi venivano investiti quasi tutti per la “rivoluzione verde” e la transizione ecologica?
Poi c’è anche l’invenzione della “digitalizzazione inclusiva”, terminologia oscura e, probabilmente, ridicola. La “qualità dell’aria” sarà centrale, e qui sembra di ritornare al Parini e alla sua ode sulla “salubrità dell’aria”…la parola “sostenibile” viene inoltre diffusa a piene mani, ma talvolta un po’ a casaccio.
Poi – finalmente qualcosa di sanamente fanfaniano – c’è la vecchia, necessarissima, espansione del settore ferroviario e autostradale. Non manca, naturalmente, l’espansione della Ricerca & Sviluppo, dei Laboratori scientifici, delle tecnologie evolute. Poteva mancare la geremiade sull’evasione fiscale? Certo che no, la trovate a pag. 24 del documento governativo. I nostri attuali governanti sembrano quei bambini poveri che, avendo ricevuto a Natale una piccola cifra, cominciano a fare progetti colossali.
Ma occorre svegliarli dal loro ozio dogmatico: i finanziamenti del Recovery Fund sono strettamente collegati alle priorità dell’Agenda Europea, non il contrario.
E il rapporto tra “rivoluzione verde” e occupazione è molto più complicato di quanto non si creda: i settori che necessitano del maggiore abbattimento di CO2 non sono, quasi mai, quelli che assorbono più occupazione o che trasmettono forti stimoli a tutto il sistema economico. Il 70% delle emissioni di gas serra, in Italia, è generato da settori che hanno scarso impatto sull’occupazione. Per essere più analitici, i nostri gas serra sono generati per il 24,5% dai trasporti, il 24% dal settore elettrico, il 17,6% dal termico residenziale, e il 4% dalla gestione dei rifiuti. Peraltro, le politiche energetiche nei settori a maggiore assorbimento di energia sono quasi tutte di diretta emanazione UE, e non vengono nemmeno conteggiate nei Piani Energetici Nazionali.
L’80% e oltre del Pil italiano è oggi generato dalle industrie non troppo energivore, dal turismo, dall’agricoltura, dai vecchi settori industriali (tessile, farmacopea) ma anche dalla finanza e dal terziario.
Come si fa, qui, la Green Economy? La crisi italiana è derivata dalla concorrenza mantenuta con la deflazione interna (bassi salari, privatizzazioni, compressione dei salari) e, soprattutto, dalla scarsa produttività del capitale. L’eccessivo frazionamento del tessuto produttivo (le cretinate di “piccolo è bello”) hanno aggravato ulteriormente il quadro, la distruzione progressiva della finanza pubblica e la troppo favorevole fiscalità per le rendite hanno fatto il resto.
Ecco, a parte le belle parole tanto generiche, sarà bene ripensare, con il Recovery Fund in arrivo, alla totale ristrutturazione del nostro sistema produttivo, verde o meno che sia.