19 Dicembre 2024
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Franco Cardini, Tra i rovi della memoria – Poesie 1956-1961, La Vela 2020, pp.128, 12 euro

Cardini poeta. Una sorpresa per tutti coloro che conoscono il grande storico delle Crociate, il professore che ha sempre redarguito chi ha pensato di mettere in evidenza le contrapposizione tra musulmani e Occidente, piuttosto che le vicinanze e le analogie tra Ebraismo, Cattolicesimo e Islam. Ma in fin dei conti non proprio uno stupore, perché Cardini è sempre stato uno scrittore, un amante delle belle lettere. Lo vedo prima di tutto come un sentimentale, come un uomo emotivo che dissimula benissimo questa sua forza e tenerezza congiunte con l’aspetto spiccio e l’atteggiamento a volte austero. Ma Cardini è uomo generoso e di grande trasporto. Lo si vede da questo libro di poesie che candidamente lui segna e inchioda nel mezzo del Novecento, tra il 1956 e il 1961.
Io credo ne abbia scritte altre di poesie nel corso del tempo. E credo che senta un’affezione a questo genere letterario così difficile, impegnativo e passionale. Tuttavia egli decreta al periodo della giovinezza il suo esercizio poetico e così si addentra “Tra i rovi della memoria” in una maniera totalmente lirica. Lo fa perché ritiene, come gli stilnovisti e come Dante, che la poesia si addica alla parte giovanile della formazione intellettuale di uno scrittore. E una volta cresciuti ci si debba dirigere verso altre fonti di conoscenza. E lo fa per modestia, dichiarando senza dirlo che il seme del sapere cresce seriamente soltanto quando si è colmi di curiosità ma anche (soprattutto) di grande sensibilità, di umanità.

Ho letto alcuni libri di Cardini – leggerli tutti sarebbe un’impresa improba, vista la sua prolifica produzione che prosegue e ha i crismi dell’infaticabilità – ma questa raccolta poetica mi è apparsa subito come un’epifania.
Intanto la premessa dell’autore è sorprendente. Non è un caso che, proprio quando è in gioco la poesia, uno scrittore provi a essere sincero rispetto a sé. Ed è esattamente questa sincerità spaziotemporale, questa coscienza salvata ed emersa dai ricordi di una vita a rendere eccezionale questo libro. Cardini sembra costruire un bilancio esistenziale mentre entra nel suo ottantesimo anno. E comunque lo fa presentando delle poesie giovanili. Questo libro sembra quasi una rinascita, una specie di “Vita nova” ripescata alla vecchiaia dagli anni della giovinezza.

Dove sta il trucco?
Non è un trucco, ma una condizione caratteriale. Ed ecco così scoperto l’arcano, attraverso le parole che la nonna dell’autore gli ripeteva sempre in fiorentino stretto: “Nini mio, te tu sara’ bono a invecchiare, ma un tu crescera’ mai”, cioè non diventerai mai adulto. Come Pinocchio, come quando Cardini dice, per dichiarare i suoi ottanta anni: “compirò per la quarta volta vent’anni”.
Lo vedo in questo vicino a un amico poeta che se n’è andato un po’ di tempo fa, Valentino Zeichen, profugo istriano che viveva in una baracca in via Flaminia. Valentino diceva di sé: “Sono leggero, sono veloce, perché so sintetizzare. Volevo rimanere giovane, ma alla fine c’è la resa dei conti. Eppure sono ancora un vecchio ragazzo”.
Ma questa prova poetica di Cardini non è la resa dei conti. È più che altro una confessione, la necessaria sostanza delle cose che un cattolico serio, sincero e di principio non può fare a meno di dichiarare, ponendo se stesso e la sua anima aperti insieme al giudizio del mondo.

Segue la premessa dell’autore, un’introduzione a quattro voci fatta dalle quattro figlie dell’autore. Sono confessioni intime che il lettore affronta con pudore e quasi volendosene dimenticare in fretta, come se non volesse entrare in queste stanze della casa di famiglia.
In questo senso si esplica, come in una narrazione familiare, questo lavoro che è memoria personale, gioia e supplizio (quando non vitalismo) filiale. Infatti l’autore rammenta che queste poesie furono ritrovate in un cassetto da una delle figlie e diventarono oggetto di scherno e di commozione reciproca. Un libro che ci allontana visceralmente dall’anti-biografismo crociano.

Ma attenzione, Cardini non è poeta nel senso stretto del termine. Cardini è uno scrittore, è uno che scrive storie e non sa stare senza farlo (lui stesso si definisce “grafomane”).
Cardini ha posto la poesia negli anni liceali, ne ha fatto un esercizio di interiorità portata all’evidenza dal linguaggio, che fossero versi amorosi o civili.
Eppure come non affermare che Cardini è pure poeta?
Certi versi alludono a riferimenti dotti che già lui estrinseca nella premessa: versi neomedievali, riflessi fonici di Garcia Lorca, orientalia, ecc.

Delle 60 poesie ne scelgo tre per tentare di argomentare sull’opera dell’autore.
La prima che cito si intitola “Cemento sopra cemento” ed è quasi una poesia d’interpellazione, dove la donna Laura è chiamata a sentire con l’autore il dramma della cementificazione delle periferie urbane che nei due decenni del secondo dopoguerra cambiò radicalmente volto all’Italia:

Te lo ricordi, Laura, il prato in fiore?
Te lo ricordi il ciliegio fiorito?
Adesso ci passa una strada
grigia e dura come la pelle d’un serpe;
c’è una casa alta e grande
cemento sopra cemento
sui fiori che coglievi da bambina. 

L’uomo ha gettato il cemento
sui nostri cuori.

Ci sono anche alcune poesie ambientate sul mare, sulla spiaggia, comunque in un’atmosfera marina, come se per incanto l’autore volesse rendere omaggio a uno dei topoi per eccellenza della poesia novecentesca: il sentimento autoriale legato all’ambito marino, melanconico e uggioso.
Serve segnalare come esempio di poesia civile e come snodo nella vita dell’autore il poema intitolato “Il sangue di Santo Stefano”, dedicato al Ungheria del 1956, quando i carri armati sovietici fecero l’ingresso a Budapest per soffocare la riforma socialista ungherese che apriva la società ad alcune libertà impensabili per il regime sovietico. Ecco alcuni versi:

Se il fiume potesse parlare
direbbe dell’onde di sangue
che s’ingorgavano tra l’erbe palustri
[…]
Ma che nessuno veda:
qui anche la tenebra ha gli occhi.
[…]
Ed ogni giovane
che ci moriva accanto
era un’altra bandiera
issata sul nostro calvario.
[…]
Noi pettinavamo le siepi
del nostro giardino
mentre Budapest spogliava
delle foglie più verdi l’immenso
albero del sacrificio.

E infine una poesia che, come tutte le poesie più importanti, affronta il tema della morte. Che proprio la letteratura ha due movimenti eterni che la guidano: amore e morte. Come un’altalena incessante. Il titolo è “Quando non avrò più voce” ed è decisamente uno dei testi più lirici dell’intera raccolta:

Quando non avrò più voce
seppellitemi ai piedi dell’ulivo
col capo avvolto in un velo di seta.
Strappatemi gli occhi rotondi
quando non avrò più voce
ch’io non veda
ciò che non posso cantare.
Strappatemi gli occhi rotondi
e gettateli nel torrente.
Quando non avrò più voce
non voglio più vedere l’aria azzurra
non voglio più sentir canto di bimbi
né frusciare di foglie
né sonar di mare.
Io vedo con le labbra
e canto con le pupille.
Quando non avrò più voce
toglietemi il bastone a cui mi appoggio
e lasciatemi, cieco
morire sotto l’ulivo.

Un canto di fine, rassegnato e senza pentimento, proprio di chi ha vissuto una vita piena e meritata.
Ma questo è soltanto la verità della poesia, quella che trascina l’autore fuori dal sé noto e affermato di storico e lo conduce verso sentieri impervi, a volte inattesi, che mettono alla prova del tempo e dei versi. Una verità manifesta che trova in questo libro un candido ritratto, forse il più reale, dell’uomo che risponde al nome di Franco Cardini.

[Alessandro Agostinelli]