Carmine Abate, L’albero della fortuna, Aboca s.p.a. Società Agricola, pag.176, €14,00.
Emigrato da giovane dalla Calabria ad Amburgo, dopo essersi fatto conoscere in Germania come narratore, nel 2012 Carmine Abate ha pubblicato con Mondadori La collina del vento, romanzo con cui ha vinto il Campiello, che ci riporta nella sua Calabria. Lui è di Carfizzi (1954), paese di lingua e cultura arbereshe- quella degli Albanesi d’Italia.
Il tema dell’emigrazione, unico modo per sfuggire alla mancanza di lavoro che ha sempre attanagliato il nostro Sud, è frequente nei suoi libri, anche ne L’albero della fortuna, in cui ha raccontato la storia di un fico, entrando in quel “bosco degli scrittori” su cui l’Editore così si esprime: “Secondo alcuni scrittori di oggi è solo guardando all’intelligenza del mondo vegetale, alle sue straordinarie qualità sistemiche, che il genere umano potrà comprendere come il rispetto della natura altro non sia che il rispetto verso se stessi”.
L’albero di fico è il protagonista vegetale, insieme ad un ragazzo di dieci anni, ai suoi genitori, agli amici con cui gioca a pallone in uno spiazzo adibito a campetto, alla gente di paese con i suoi riti, ma soprattutto ad Argentì, il vecchio di novantadue anni tornato dall’Argentina per morire nella sua terra.
Ci sono anche le ghiandaie, le grisce, con cui il ragazzo porta avanti una lotta quotidiana per strappare loro i bottafichi maturi, i fichi fioroni che maturano prima degli altri e che lui aspetta con ansia, i più dolci di tutti. Ma le grisce ladre si svegliano all’alba e gli fanno trovare i bottafichi svuotati e penduli.
Poco lo consolano le partite con gli amici o le spedizioni a rubare frutta matura, con i proprietari che chiudono un occhio davanti ai ragazzini invece di sparare a sale. Poco risolvono i tentativi vari di tenerle lontane.
Un giorno arriva sotto il fico un vecchio che si porta la sedia e sta all’ombra, come se facesse la alla pianta. Prima guardingo poi attento, il ragazzo ascolta il vecchio e scopre da lui storie e leggende. Così ogni giorno cerca quella compagnia fino a preferirla alle partite di pallone, fino a desiderare di diventare lui stesso un narratore di storie.
Magari racconterà la storia di quel fico: Argentì gli dice che i fichi sono alberi della fortuna, perché “è soprattutto grazie a loro se non sono morte di fame intere generazioni di faticatori”. E “se tu ci credi fermamente che il fico è l’albero della fortuna, la fortuna ti assiste davvero”.
Il paese è lontano da Crotone, recarsi in città col torpedone è un’avventura. Manca il lavoro e il Sindaco promette uno sviluppo edilizio che tarda ad arrivare e se arriva è mal gestito.
La scelta della emigrazione non è rimandabile. Anche il vecchio Argentì, ormai divenuto nonno adottivo tanto amato, passa. Passa anche il fico strappato via da una ruspa che allarga la strada. Inutile la lotta del ragazzo per salvarlo. Ma lui ora è cresciuto, nel breve scorrere di un’estate: “Un po’ come succede a quelli della tua età, che la sera vi mettete a letto bambinelli e la mattina la mamma vi dà un bacio sulla fronte e vi svegliate cresciuti”. Ha imparato tante cose, anche a non aver paura della solitudine perché “se tu non dimentichi quello che hai vissuto, non ti senti solo”.
Per fortuna il padre ha piantato a suo tempo “un figlio” del fico. La pianticella riporta la fiducia.
Carmine Abate narra con fare leggero, aprendo ai colori ed alle voci della Natura, scivolando dall’Italiano alla parlata locale che aggiunge musica e colore. Come in queste parole del padre: “Le grisce non si lasciano fricàre da nessuno, nemmanco dai contadini più sperti, quelle arrivano in un lampobaleno quando sentono l’odore dei bottafichi appena appena maturi, figurati se proprio tu frichi a loro!”