Il Congo dei terroristi
La foresta nel Kivu è così fitta che sembra un muro. È bella da ferirti gli occhi. E terribile al punto che può uccidere. Ciascuno si sente piccolo, qui, precipitato in una terra che non pare fatta per gli uomini. Dove la lotta per sopravvivere è così continua, sfiancante, ossessiva che non ti lascia pensare ad altro. Tutto ti può uccidere: un serpente, ebola e mille altre malattie subdole e feroci, un altro uomo. Ecco: gli uomini, i protagonisti della eterna «grande guerra d’Africa» nell’est del Congo, lunga, atroce, macchiata di frode e di crudeltà, dove nessuno di coloro che sparano è quello che dice di essere. I rivoluzionari e i ribelli sono in realtà banditi, i governativi indossano uniformi ma si battono non per la paga che nessuno gli dà ma, anche loro, per il bottino, le donne da violentare. E i soldati dell’Onu, la più grande e fallimentare operazione di pace della storia, ventimila uomini, un miliardo di dollari l’anno? Da vent’anni sono lì, frustrati spettatori di una pace metafisica che non c’è, caschi blu arruolati in Paesi ancor più poveri di questo, mercenari della miseria. Arrivi a Goma e ti accorgi che ci sono due mondi, il mondo del giorno dove comandano i funzionari del remotissimo governo di Kinshasa, i soldati, i caschi blu. E poi c’è il mondo della notte dove incontri gli altri. Gli ultimi arrivati sono quelli affiliati al Califfato, il «Gruppo armato delle forze democratiche alleate».
Sono tagliagole nati in Uganda ma qui hanno trovato un eldorado senza legge e proclamato la nascita della «provincia islamica dell’Africa centrale». Chissà: ci sono tante ricchezze da rubare che potrebbe davvero esser questa, la zona dei grandi laghi, il tesoro delle future guerre sante. Questo è un luogo pieno di crudeltà, loro ci stanno benissimo.
Poi ci sono i ribelli delle tribù che non riconoscono il governo centrale. E i killer bambini dell’Esercito del signore, che cacciato dall’Uganda è sconfinato in Congo. Nei villaggi dell’alto Huelè non c’è giorno in cui bambini e bambine non vengano rapiti, trasformati in schiave sessuali e in combattenti, spie, portatori. Li marchiano sulla fronte, sul dorso e sul petto con croci disegnate con olio di karité, che i miliziani acholi chiamano «moo-ya» e dicono sia una pianta sacra. E poi ci sono milizie comandate da stregoni che promettono l’invulnerabilità con pozioni magiche e gris gris, e le bande degli antichi massacratori hutu del genocidio ruandese degli Anni novanta. Sono sfuggiti alla vendetta dei tutsi rifugiandosi nelle foreste del Kivu e si sono trasformati in una armata di spiriti, avida e feroce. E poi piccoli signori della guerra, imprenditori di milizie che le affittano per difendere le miniere, saccheggiare, offrire protezione: la guerra business, la guerra che nessuno racconta perché è un romanzo criminale. Qualcuno ha provato a contarli: dicono che i gruppi armati siano almeno un centinaio.
La lotta per i metalli
Sono uomini cenciosi ma con i kalashnikov, particolare che fa la differenza tra padrone e vittima, tra uomo e insetto da schiacciare. Come ieri nell’agguato al convoglio dell’ambasciatore italiano emergono dalle foreste, occupano un villaggio, saccheggiano una miniera, attaccano soldati malvestiti, affamati, che si trascinano dietro, come nomadi, famiglie e bestie. Le guerre nel Kivu hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev: il coltan, l’oro, il tungsteno. Chi ricorda che arrivano dal Congo marchiati da delitti, sfruttamento, schiavitù, disperazione? Il tantalio: un metallo che resiste alla corrosione, ad esempio. Lo scavano in queste foreste da cui sono balzati fuori i killer dell’ambasciatore, lo scavano uomini e bambini con la vanga, le mani impastate di fango e di sudore. Tante piccole mani distruggono la foresta per cercarlo. Uomini armati li controllano, pronti a sparare. Il padrone della concessione, con un satellitare, tratta forniture, contratti, conti in banca e le tangenti per i funzionari e i ministri del governo. Paga la gente della notte, perché eliminino i concorrenti, diano la caccia agli schiavi che hanno tentato la fuga. E la cassiterite? La avete mai sentita nominare? Esiste, serve per saldare e per le leghe speciali: si nasconde in questa terra nera come sangue raggrumato.
I presidenti Kabila
Qui tutti sono dei sopravvissuti a ultradecennali macelli. Anime timorose e fragili, figli innocenti della guerra, della paura, dell’esilio e della fame. Sopravvissuti fuggendo camminando urlando di dolore e di paura, invocando pietà in mille dialetti. Sono ancora vivi. Non li hanno uccisi le angherie iperboliche di Mobutu, il Grande Furfante, che aveva messo fuori legge il Natale e le cravatte. Possono raccontare di quando arrivarono le folle di hutu ruandesi braccati dalla vendetta dei tutsi e una parte di loro, quelli armati, gli artigiani del genocidio, non chiedeva pietà ma esigeva terre e denaro. Non li hanno ammazzati i soldati dei due Kabila presidenti, il padre rivoluzionario contrabbandiere che riuscì a disgustare anche un fragile Che Guevara spedito per punizione in Congo, e il figlio, presidente-padrone della nuova generazione dei despoti africani. E poi possono rievocare i tempi del pittoresco generale Nkunda che su ordine dei ruandesi doveva diventare signore per procura del Kivu. Piaceva ai giornalisti occidentali che sudavano nella foresta per raggiungerlo e descrivere la sua divisa immacolata, il ghigno arrogante. Durò poco. I suoi padroni di kigali lo vendettero per un accordo con Kabila. Le donne sono sopravvissute alle violenze di tutte le milizie di passaggio, sono vive, forse è giusto cercare di dimenticare, i bambini sguazzano nel fango e tra i rifiuti, vestiti di stracci, anche loro sono vivi, sfuggiti all’arruolamento in qualche armata di fantasmi. Quando la guerra si infiamma tutti sono pronti, caricano sulla schiena il basto formato dalle poche cose sfuggite ai saccheggi e si mettono in marcia, pazienti, dimessi. Bisogna nascondersi nel fastoso fittume di foreste di acqua e di nuvole accaldate e basse che assiste indifferente alle tragedie. Paccottiglia umana per la cui difesa nessuno mai sparerà una pallottola.
Le bandiere nere sono ormai sulle sponde dei grandi laghi, ribattezzata «provincia dell’Africa centrale», crocevia delle guerre eterne per rame, uranio, coltan, dei feroci conflitti tribali. Il «Gruppo armato delle forze democratiche alleate», nato in Uganda e ora alleatosi al Califfato, colpisce nel Kivu, in Congo. Queste terre ricche di minerali e politicamente fragili saranno l’eldorado del terrorismo mondiale.
[tratto da La Stampa – di Domenico Quirico]