Netanyahu ha perso (o ha vinto?)
Dopo molto tempo in attesa, in Israele si sono tenute le quarte elezioni in due anni. Ma il chiarimento che tutti vorrebbero ancora non si vede. Anzi, poche cose sono chiare. Il partito di Netanyahu, il Likud, è sempre il primo. Ma forse ci fermiamo qui con le certezze. Proviamo allora a farci una nostra idea, guardando ai risultati che sono usciti dalle urne.
La prima fotografia è quella di un paese spostato in maniera decisiva, e ormai da tempo, a destra: su 120 seggi del Parlamento israeliano, la sinistra ne ha 13 – sette il Labor e sei il Meretz – e addirittura entrambi festeggiano: la volta scorsa il Labor ne aveva quattro, e il Meretz non si sapeva nemmeno se avrebbe superato la soglia d’ingresso; il centro che guarda a sinistra ha 25 seggi (17 Yesh Atid di Yair Lapid e otto Kahol Lavan di Benny Gantz, che tutti danno come miracolato, anche per lui i sondaggi davano il superamento della soglia d’ingresso appena risicato).
Tolti i 10 seggi dei partiti arabi, tutto il resto – 72 seggi – sta a destra, che però è frazionata in tanti pezzi a causa della presenza di Netanyahu: 30 lo vogliono (il Likud), 22 lo sostengono (i partiti religiosi e la destra estrema, razzista e orgogliosamente omofobica, al cui fondatore gli Stati Uniti nel 2012 negarono l’ingresso per essere considerato appartenente a un’organizzazione terroristica), ma i restanti 20 (Lieberman, Sa’ar e anche Bennet, sia pure con sfumature) non lo vogliono. Il problema della destra – e di tutto il paese, a dire il vero – è sempre, come nelle tre elezioni precedenti, la presenza di Netanyahu che tenta in tutti i modi di evitare i processi per corruzione di cui è accusato; il quotidiano Haaretz lo sta paragonando alla Ever Given: come questa nave porta container blocca il traffico marittimo nel Canale di Suez, Netanyahu ormai impedisce il normale defluire del processo democratico del paese. E come dare torto a Haaretz, se le quattro elezioni sono state indette a causa di uno scontro sempre più rumoroso tra chi lo vuole e chi non lo vuole più?
Un altro modo di guardare i risultati del voto ci avvicina di più alla questione di come si può adesso formare un governo in Israele. Come si vede dal grafico qui sotto, al momento Netanyahu è davvero lontano dall’avere una maggioranza: si ferma a 52 seggi, e per superare la soglia di 61 dovrebbe mettere assieme due forze che tra loro potrebbero stare assieme solo con un miracolo: la destra (Yamina) di Naftali Bennet e la lista araba islamista, quanto di più lontano ci possa essere dalla destra israeliana.
Dall’altra parte c’è il blocco anti-Netanyahu, con 57 voti, estensibile a 64 con Yamina, e addirittura a 68 con gli arabi islamisti. Ma il problema è che qui dentro c’è di tutto: la sinistra sopravvissuta di Meretz e Labor, il centro-sinistra di Lapid e di Gantz, la destra di Liebermann e di Gideon Sa’ar, e la seconda lista araba. Veramente dura tenerli assieme solo con il collante anti-Netanyahu.
Ed è difficile anche pensare come andrà a finire. Sono giorni convulsi in cui tutto e il contrario di tutto viene detto nel volgere di pochissimo tempo: Bennett di Yamina afferma che non appoggerà una coalizione guidata da Netanyahu e con dentro il partito islamista, ha parlato con tutti i leader – eccetto ovviamente i partiti arabi – invitandoli a «districare Israele dal caos», ma in pratica non si sa come questa formula potrebbe tradursi in un concreto governo. Bennet ha un suo valore: se porta i suoi seggi al pacchetto anti-Netanyahu, è fatta. Se invece qualcuno si sgancia da quel pacchetto e slitta dall’altra parte, allora Yamina darà la spinta finale per l’ennesimo governo Netanyahu.
Liebermann intanto afferma l’intenzione di proporre una legge per impedire ai condannati di qualche crimine di formare un governo: un modo per impedire a Netanyahu di correre per un’eventuale quinta elezione qualora dovesse essere condannato. Perché è proprio questa, la quinta elezione, che molti vedono come il grande rischio.
E poi c’è la questione del voto arabo. Quale che sia il nuovo governo, senza dubbio gli arabi sono adesso pienamente legittimati nel gioco delle coalizioni. Già dopo le precedenti elezioni ci furono negoziati più o meno segreti fra Gantz e la Joint List, che quasi giunse a concretizzarsi. Ma stavolta c’è il ‘gran finale’: adesso anche Netanyahu – dopo avere imprecato contro e diffuso disperazione – si trova a corteggiare gli elettori arabi. Li ha resi kosher, dice Haaretz. Ed è un processo di normalizzazione, quello con i cittadini arabi d’Israele, che potrebbe cambiare il futuro del paese.
Ovviamente, esiste la possibilità che Netanyahu, che è un maestro in questo, possa attrarre dalla sua parte qualche singolo parlamentare dai partiti di destra che attualmente si professano contro di lui, se non addirittura interi partiti: in fondo New Hope, il partito di Gideon Sa’ar, che era uscito dal Likud proprio in contrapposizione con Netanyahu, non è andato per niente bene, e con Bennet ci si può sempre intendere: se aggiungessimo i seggi dei due partiti (sette per Sa’ar e sei per Bennet), si andrebbe a 65, e anche stavolta sarebbe fatta per Netanyahu. Molto meno difficile di altre volte, sembra. Vogliamo scommettere che il ‘nostro eroe’ lavorerà in quell’orticello? Giovedì scorso Yifat Shasha-Biton, che è uscita dal Likud a dicembre scorso ed è stata eletta con Sa’ar, ha detto che il Likud ha già contattato ogni parlamentare di New Hopeoffrendogli posti in cambio di sostegno; a lei sarebbe stato offerto il Ministero dell’Educazione.
Come andrà a finire? Ci sarà un nuovo governo di destra (sempre più a destra)? O un governo del cambiamento? Oppure, ancora, Israele sprofonderà in una quinta elezione? Seguiamo con attenzione l’evolversi degli eventi. E poi c’è anche da iniziare a guardare più da vicino la questione delle elezioni palestinesi, previste a maggio.