A tutto Prince
Il Minnesota, credo, è famoso per almeno tre motivi: è lo stato americano più a nord – eccettuato ovviamente l’Alaska – l’unico ad avere parti sopra il quarantanovesimo parallelo; ha dato i natali a Bob Dylan; e a Prince Rogers Nelson, talora conosciuto come Prince.
È passato un lustro dalla sua prematura scomparsa, e girando la mia copia difettata di 1999, una di quelle con la tacca alla copertina, medito su quanto l’artista talora conosciuto come Prince abbia influenzato la musica degli ultimi quarant’anni. Per niente o del tutto, mi verrebbe da dire.
La notizia che l’ennesimo prodotto postumo, Welcome 2 America, ha lasciato le tasche degli eredi per riempirle ancora di più mi pare avere una scarsa rilevanza.
Come tutti gli ipertrofici, Prince ha probabilmente tonnellate di nastri in serbo per la posterità. Più di questa contingenza, mi interesserebbe cercare di capire quel che di Prince è realmente rimasto a cinque anni di distanza. Nella mia testa, è un po’ come Frank Zappa, altro bulimico della produzione. Come il buon vecchio Franco, anche Prince ha passato una vita a cercare di menare per il naso l’establishment musicale, facendo i giochi più diversi.
È stato superstar ed eremita; contestatore, contestato e conformista. Il suo variopinto circo è stato molto allineato alla zeitgeist negli anni Ottanta. Non per nulla quella sua monumentale opera si chiama segno dei tempi, e riunisce come in un catalogo tutto quello che allora era importante.
Nel clinamen principesco è quello l’istante di perfetta aggregazione, ancor più di Purple Rain, che rappresentò piuttosto il lato glamour della vicenda.
Sarebbe bastato solo quello? Sarebbe stato opportuno arrestarsi lì, invece di continuare a sfornare opere giocando con le provocazioni e le identità?
Non staremmo, in quel caso, a parlare della leggenda di Prince o di chi per lui. Scopriamo invece continue interferenze, doni fatti a generi musicali successivi, anticipazioni del futuro. Gli inediti ci interessano meno del Prince che ancora non abbiamo approfondito, perché lui stesso voleva sfuggire ad ogni approfondimento. Teneva ad essere icona, prima che se stesso. E noi non sapremmo appiccicargli nemmeno un nome, come al fu Mattia Pascal.