Dalla SuperLeague agli androidi
Avrei voluto scrivere un articolo sulla Super League, cioè quella proposta fatta da 12 squadre di calcio contro cui si sono scagliati tutti i residenti dell’Unione Europea, politici e animali da compagnia compresi. Ripeto, avrei voluto scriverne, ma a questo punto non saprei più che cosa dire perché oltre la metà delle squadre che ne facevano parte hanno fatto marcia indietro (sic!). E quando una notizia di sport arriva a occupare prime pagine, aperture, editoriali e commenti nell’arco di circa 48 ore, può significare due cose. Primo: l’Italia ha vinto i mondiali. Secondo: dopo mesi di notizie e notiziucole sul Covid-19 qualunque cosa passi davanti a una redazione giornalistica si prende al volo. E questa seconda ipotesi mi pare fin troppo calzante.
Tuttavia una riflessione sul torneo abortito della Super League merita qualche riflessione, perché le critiche isteriche piovute da ovunque parlano molto del nostro conservatorismo invece che della Super League.
Il calcio degli ultrà
Ora molti penseranno non sia giusto che il calcio, che è un fatto eminentemente sportivo (nel senso di De Coubertin) e popolare, dismetta i panni del “vinca il migliore” e si adegui esclusivamente al dio denaro. Ma perché oggi non è forse col denaro che si vincono, più o meno, i campionati?
Altri penseranno sia immorale che una squadra di calcio non rappresenti la propria città, la propria bandiera, la propria maglia, il proprio quartiere, la propria identità e con essi il proprio razzismo, i propri campanili, le curve degli ultrà, le botte e le guerriglie tra tifosi. Ma non sarebbe invece il caso di dare maggiore spazio allo sport come entertainment, invece che alle gabbie mentali dell’avversario come nemico?
Squadre con bilanci fasulli
Non sono un fautore della Super Lega, ma nemmeno un oltranzista del tutto resti così com’è. Perché non sopporto gli stadi delle curve identitarie e politicizzate e non dimentico che questo tipo di appartenenze troppo “sfegatate” hanno prodotto spesso fatti tragici con gente ammazzata e diffusione di bieco razzismo.
E certo mi sarebbe piaciuta l’idea di vedere un campionato (parallelo a quelli nazionali e a una Champions sempre più simile alla Coppa Uefa anni Ottanta) che metta di fronte sempre i migliori. Cioè i migliori giocatori per le migliori squadre che hanno margini economici e aziendali per investire, invece di club gestiti in economia con bilanci fasulli, vicini spesso al fallimento, come hanno dimostrato più volte in questi anni tante squadre, anche importanti.
Stadi di proprietà
I 12 club traditori (di cui sei inglesi, tre italiani e tre spagnoli), ormai in retromarcia, sono adesso invisi al 90% del popolo bue, ma vogliamo guardare quante di queste squadre sono già aziende che danno lavoro a tanti dipendenti e giocano sul loro?
Di 12 club della Super Lega 9 hanno lo stadio di proprietà. A utilizzare ancora uno stadio comunale sono Milan, Inter e Manchester City. Tutte le altre squadre – come si dice – contano su loro stesse. Riguardo al tema Super Lega sì, Super Lega no, questo argomento non è indifferente. Ancora oggi la maggior parte dei club di calcio italiani giocano in uno stadio di proprietà comunale per cui non pagano parte dei costi che restano spesso a carico delle municipalità, cioè della tassazione ordinaria di tutti i cittadini. Questo è giusto? O sarebbe meglio che squadre gestite in maniera manageriale potessero disporre di bilanci solidi ed entrate certe e non gravare sulle spalle dei cittadini?
Teatri e stadi
Molti hanno parlato di Super Lega come analoga al campionato NBA di basket americano. Tuttavia trovo che abbia più pertinenza un altro tipo di accostamento, quello tra stadi e teatri.
Ecco, nessuno si è scandalizzato del fatto che la Super Lega dei teatri in Italia c’è già. Sono i teatri stabili, che drenano la maggior parte delle risorse pubbliche per lo spettacolo dal vivo. Loro sono la Super Lega della cultura e delle attività performative. E in questo caso non si tratta di società private che gestiscono con i loro soldi le scelte culturali e il cartellone (come fosse il campionato). No, si tratta di soggetti che campano totalmente sui contributi che vengono dalle tasse dei cittadini. Di questo nessuno ha mai gridato allo scandalo, mentre è facile ci si indigni se un piccolo teatro di ricerca riceve finanziamenti dagli enti locali.
Durante quest’anno di pandemia molti si sono lamentati dei teatri chiusi, ma i teatri stabili non hanno mai avuto problemi di sopravvivenza, essendo finanziati a monte.
Netflix e gli androidi di Bilal
In altro campo culturale anche la piattaforma Netflix ha dato il suo contributo al calcio, con una serie intitolata The English Game, che racconta la vera nascita del calcio in Gran Bretagna, dove un gruppo di giovani ricchi inventa un gioco in cui si tocca il pallone con i piedi e ci si muove tutti insieme verso la porta avversaria per proteggere chi porta palla. La serie inglese è un po’ il rovescio della medaglia della Super Lega. Infatti in un mondo del calcio dove gareggiano soltanto poche squadre di ricchi rampolli dell’alta società si inseriscono operai e plebei che ambiscono a mettere su squadre che vorrebbero partecipare ai tornei. Il tema vero però non è soltanto il semplicistico tema ricchi contro poveri o viceversa, ma quello del professionismo in contrasto con l’amatorialità. Argomento che si innerva nella questione del calcio come sport spettacolo.
Non serve quindi volgere gli occhi al passato attraverso una narrazione storica a tema calcio. Anzi, forse può essere più interessante andare a ripescare dall’oblio il libro Fuori Gioco con soggetto e tavole disegnate da Enki Bilal e la sceneggiatura di Patrick Cauvin. In questa storia si parla di un futuro non molto lontano, in cui nell’anno 075 gli organismi dirigenti decisero di sopprimere il pallone dagli stadi. Da quel momento l’entrata di un giocatore col suo corpo dentro la porta avversaria era il gol. Il nome del calcio scomparve e gli androidi cominciarono a giocare con gambe elettroniche e parti umane insieme. La storia è raccontata in prima persona dal vecchio giornalista Stan Skavelicz, che è incaricato dal canale video Delta Work 3 di raccontare “La morte del calcio”, dopo che il canale ha già realizzato “La morte del cinema” e “La morte della musica”, cioè una sorta di format per spiegare come e perché scompaiono i fenomeni di massa. Mica male questo Bilal…
Non sarà che il coronavirus e la Super Lega sono due facce della stessa medaglia? Ci si allontana dall’evento vivo, dentro una rappresentazione da remoto. Nonostante il primo round l’abbiano vinto i conservatori del calcio in stile “sangue e merda”, il futuro di questo sport non dovrà fare i conti con una modernizzazione?