Fumo negli occhi
È veramente difficile scrivere nei giorni degli scontri. Si spara, la gente muore di qua e di là, prevale la paura, e sembra non sia il momento per qualsiasi riflessione. Eppure dobbiamo uscirne, e forse capire come ci siamo infilati dentro ci può aiutare.
Proviamo intanto a sgombrare il campo da affermazioni di parte ormai storiche – il sionismo come arma del neo-colonialismo europeo, occupazione illegittima, e via dicendo – e proviamo a tornare a qualche settimana fa.
Tutto nasce per alcune case a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est. È un quartiere a più o meno tre chilometri dal centro storico, non è degradato come altri se ne trovano nella parte araba della città. È il quartiere delle vecchie ambasciate; quando apparteneva alla Giordania lì c’erano le rappresentanze diplomatiche a Gerusalemme che, secondo il piano di spartizione ONU del 1947, avrebbe dovuto rimanere sotto tutela internazionale.
Alcune settimane fa, a Sheikh Jarrah succede che si intende dare esecuzione allo sfratto di alcune famiglie arabe, a seguito di un contenzioso sulla loro proprietà che è in piedi da qualche anno e che addirittura è finito in tribunale. Ma chi richiede la proprietà è ebreo, e gli sfrattati sono arabi. Questi ultimi protestano, fanno un presidio davanti alle case. Arrivano altri arabi a sostenerli, urlando che lo sfratto è l’ennesima occupazione ebraica di terre e case palestinesi, è la continua espansione israeliana su territori che non sono loro. Stavolta, diversamente dal passato, c’è anche una presenza maggiore di arabi cittadini israeliani.
Allora il Partito del Sionismo Religioso, di estrema destra – razzista, antiarabo, omofobo – decide di fare quella che per loro è la cosa giusta, e cioè una marcia antiaraba nel centro storico, affermando la sovranità d’Israele su quella parte di città, e urlando agli arabi che se ne devono andare. Ovviamente si oppongono alla realtà dei fatti, e cioè che sin dal 1967 Gerusalemme est, compresa la città vecchia, secondo la comunità internazionale è occupata, quindi Israele non ha la sovranità, e un accordo – delineato con i trattati di Oslo di metà anni ’90 – non esiste. Ma tant’è, la marcia serve a far salire la tensione. Seguono scontri, la polizia che interviene contro gli arabi che hanno attaccato il corteo, picchiano anche un parlamentare arabo.
A quel punto, da Gaza interviene Hamas. Iniziano i lanci di missili e le dichiarazioni di sostegno ai palestinesi di Gerusalemme e la chiamata a una nuova intifada. Seguono rivolte sulla Spianata delle Moschee, contro le quali la polizia interviene in massa: ci sono scontri duri su quel luogo santo per l’Islam, un po’ come se si intervenisse in Piazza San Pietro, 200 feriti. Allora Hamas continua un lancio di missili sempre più intenso: ad oggi se ne contano circa un migliaio. E la rivolta araba dilaga nelle città d’Israele: a Lod, vicino all’aeroporto, ad Akko, l’antico porto dei Crociati nel nord d’Israele. E infine il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza.
Ecco quindi che un piccolo evento – il potenziale sfratto di alcune famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah – è servito come detonatore per eventi più grandi. Ma tutto sta sfuggendo e la crisi si allarga: in un incontro d’emergenza, i 57 membri dell’Organizzazione per la cooperazione islamica condannano Israele per le continue violazioni della santità della Spianata delle Moschee, uno dei luoghi sacri per l’Islam, e per gli attacchi ai fedeli là presenti. Il Dipartimento di Stato USA parla con le controparti israeliane e palestinesi per cercare di ridurre la portata degli eventi, ma sono le controparti che mancano: mentre l’Autorità palestinese è totalmente oscurata da Hamas, il governo Netanyahu è debole, dovrebbe gestire gli affari ordinari in attesa che entri in carica il prossimo governo. Ed è questo il punto.
Torniamo indietro di qualche settimana ancora.
Il 23 marzo scorso in Israele si sono tenute le elezioni (le quarte in due anni, ma ormai di questo i nostri lettori sanno tutto). Il Presidente della Repubblica ha dato mandato a Netanyahu di formare il governo ma lui ha fallito, in mano gli sono rimasto solo 52 parlamentari dei 61 richiesti per formare il governo.
Allora il Presidente ha affidato un nuovo mandato a Yair Lapid, capo del partito centrista Yesh Atid (C’è un futuro), secondo arrivato, che sta tentando di costruire un governo con tutti quelli che sono contro Netanyahu (i partiti di destra, quelli di sinistra, e i partiti arabi). A stare ai giornali, fino a qualche giorno fa la costruzione del governo procedeva. L’ipotesi era che l’incarico di Primo Ministro venisse affidato a Naftali Bennett, capo di Yamina (Destra) in rotazione fra due anni con Yair Lapid. Già si discuteva dei ministeri, ma le violenze di questi ultimi giorni stanno eclissando la formazione del possibile nuovo governo.
I negoziati sono stati sospesi. Mansour Abbas, il capo della Lista Araba Unita, si è fermato, Yamina pare incline a non firmare alcun accordo di coalizione fino a che non siano chiare le intenzioni di Abbas. Non è chiaro se sia possibile costituire un governo in queste circostanze.
La pressione su Bennett è alta: il capo del Partito del Sionismo Religioso, Bezalel Smotrich, martedì si è rivolto ai parlamentari di Yamina: “svegliatevi, non siate guidati da un pastore che ha perduto la dirittura morale”. E il Ministro delle Finanze, Yisrael Katz, ha chiesto a Bennett di fermarsi, dicendo che “gli eventi degli ultimi due giorni hanno portato ad una conclusione: tutti i partiti devono smettere di corteggiare la Lista Islamica per formare un nuovo governo”.
Non è il momento delle riflessioni, molte persone da entrambe le parti stanno soffrendo, l’economia sta collassando, nessuna delle due popolazioni uscirà con qualcosa di più, anzi il contrario. Ma appare evidente che tutto questo consenta a Netanyahu un ultimo colpo di coda – e forse nemmeno l’ultimo – se non si forma un governo del cambiamento e le quinte elezioni diventano realtà.