Le bombe atomiche di Van Gogh
“Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non, di fatto, per uscire dall’inferno”, scriveva Antonin Artaud nel suo saggio su Van Gogh. Il suicidato della società (1947), pubblicato in Italia da Adelphi nel 1988. Più di ogni altro artista, il pittore olandese ha inteso l’arte come ricerca di “un varco attraverso un invisibile muro di ferro” sondando due distinte dimensioni della vita umana: la dimensione dell’incomunicabilità, della sofferenza, della lotta e la dimensione, più nascosta e difficile a trovarsi, dell’unità.
Van Gogh non dipingeva solo per uscire dal suo inferno, abitato da forze oscure e misteriosi affatturamenti, dipingeva nella convinzione che ogni uomo dovesse essere tratto fuori del proprio inferno. Tutta la sua arte è animata da una profonda tensione religiosa, che conferisce all’artista una specie di doppia natura, “di monaco e di pittore”.
La pittura diventa così coscienza allargata, sforzo di diffusione di un messaggio d’amore fra gli uomini e fra gli uomini e la terra, eternamente viva e pulsante in ogni suo elemento. Per questo van Gogh voleva abbagliarsi alla luce dorata dei campi di Arles, inseguire la compagnia degli altri uomini implorando di non lasciarlo solo, affidarsi alla sola scienza che conosceva, quella silenziosa dei colori, dal cui accostamento avrebbe potuto lampeggiare quanto altrimenti sarebbe sfuggito al pensiero.
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E allora occorreva lavorare senza ambizioni, “come un contadino, e con poche pretese se si vuole durare”, per poi “andare al popolo” – come scrive in una lettera del 1878, venticinquenne – a quel popolo di contadini e minatori presto divenuti anche i soggetti d’elezione di molte delle sue tele, estremamente materiche, trafitte da pannellate pesanti come colpi d’ascia, perché al tatto esse stesse ricordassero un volto, il volto corrugato e scalfito dei “semplici”:
“Anche nell’ambiente più raffinato e nell’agiatezza, bisogna conservare qualcosa del carattere di un Robinson Crusoe o di un anacoreta; altrimenti si diventa superficiali e si lascia spegnere il fuoco dell’anima. E chiunque scelga la povertà e l’ami, possiede un grande tesoro e udrà sempre chiaramente la voce della coscienza; chiunque oda tale voce e le obbedisca, troverà in essa un amico e non sarà mai solo”. (Lettera a Théo, 3 aprile 1878).
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Al saggio di Artaud sembrava ispirarsi il lungometraggio di Julian Schnabel uscito nel 2018, Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità. Il documentario eccedeva i canoni della ricostruzione biografica per approdare all’esplorazione dell’interiorità dell’artista. Schnabel tenta, per un verso, di sondare i misteri del processo creativo – tralasciando di riportare minuziosamente sullo schermo l’aneddotica descritta dallo stesso Vincent nelle lettere al fratello Théo – e di difendere e rielaborare, per un altro verso, la tesi fondamentale esposta da Artaud, secondo cui van Gogh, dotato di una coscienza ipersensibile e sovrannaturale, non si sarebbe suicidato, ma “sarebbe stato suicidato” dalla società, perché considerato, tanto dalla comunità degli artisti, quanto dai suoi concittadini, pericoloso, violento, doppiamente “diverso”, per la stravaganza delle sue opere e delle sue idee.
Fra i frammenti scritti da Artaud si legge: “No, van Gogh non era pazzo, ma le sue pitture erano pece greca, bombe atomiche, la cui angolazione, confrontata con tutte le altre pitture che imperversavano in quell’epoca, sarebbe stata capace di turbare gravemente il conformismo larvale della borghesia del Secondo Impero e degli sbirri di Thiers, di Gambetta, di Félix Faure, come di quelli di Napoleone terzo. Perché la pittura di van Gogh non attacca un certo conformismo di costumi, ma il conformismo stesso delle istituzioni».
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È la medicina a dichiarare pazzo van Gogh, “a decretare delirante la coscienza che lavora” e che non si stanca di interrogarsi sugli uomini, su Dio, sul proprio tempo e la vita eterna. Ma poi è ancora uno psichiatra, Karl Jaspers, dopo aver esaminato attentamente gli scritti e le opere del pittore, a dover sospendere il giudizio, per la difficoltà di imbottigliare il suo paziente in una diagnosi oggettiva e inequivocabile, che non lasci alcun dubbio circa il morbo che ne insidia la condizione mentale.
“Quello di Van Gogh… non è un carattere comune. Tende ad isolarsi, ma al tempo stesso è sempre alla ricerca di amore e d’amicizia. Molti – non tutti – trovano che è difficile vivere con lui… Gli è difficile, anzi impossibile adattarsi, non sembra avere una meta, e nonostante ciò è profondamente animato da qualcosa che bisogna chiamare fede”. E ancora: “Mi sembra dunque più verosimile che si tratti di schizofrenia. Lo psichiatra, per scrupolo, deve richiamare l’attenzione su una lieve possibilità di dubbio che non esiste a proposito di Hölderlin o di Strindberg. (K. Jaspers, Genio e follia. Strindberg e Van Gogh, Raffaello Cortina Editore, 1999)
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Dunque, Vincent non era un “alienato”: i suoi quadri e i suoi scritti restituiscono l’immagine di un uomo dai sentimenti limpidi e puri, che percepiva profondamente la verità del “tutto è uno”. Quest’armonica unità dei contrari, della luce e delle ombre, del dolore e della gioia, della vita e del suo oltre, van Gogh si è sforzato di comunicarla nei suoi quadri, affinché gli uomini non restassero prigionieri della rassegnazione al non senso.
“Van Gogh dipingendo ha rinunciato a raccontare delle storie, ma la cosa meravigliosa è che questo pittore che è solo pittore, e che è più pittore degli altri pittori, perché in lui la materia, la pittura, occupa un posto di primo piano, con il colore preso così come viene spremuto fuori dal tubo, con l’impronta, quasi uno dopo l’altro, dei peli del pennello nel colore, con il tocco della pittura dipinta, come distinto nel suo proprio sole, con la i, la virgola, il punto della punta del pennello stesso contorta dentro al colore, il quale, malmenato, schizza in faville, che il pittore doma e rimescola da ogni lato, la cosa meravigliosa è che questo pittore che è solo pittore è anche fra tutti i pittori nati quello che più fa dimenticare che si ha a che fare con la pittura, con la pittura per rappresentare il motivo che ha scelto, e che fa venire incontro a noi, sporgente dalla tela fissa, l’enigma puro, il puro enigma del fiore torturato, del paesaggio sciabolato, lacerato e strizzato da ogni lato dal suo pennello ubriacato». (A. Artaud)
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E, forse, l’intera esistenza di quest’uomo dall’energia inesauribile, dalla capacità “di vedere più lontano, infinitamente e pericolosamente più lontano del reale immediato”, offre una risposta alla domanda: cos’è il talento?
È scoprire da giovani che cosa ci salverà.
Martina Dell’Annunziata
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Van Gogh è stato anche lettore vorace. Sfogliando le lettere proposte da Einaudi nel 2013 si trova un forsennato frequentatore di Dickens e dei francesi della generazione a lui precedente, Balzac su tutti.
Sono lettere da percorrere con devozione e si può partire da questa, scritta a ventiquattro anni: “le lezioni di greco nel centro di Amsterdam, nel cuore del quartiere ebraico un pomeriggio d’estate molto caldo e opprimente, con la sensazione che incombono su di me esami difficili con professori dotti e scaltri, sono sicuramente più pesanti di una passeggiata sulla spiaggia o tra i campi di grano del Brabante che ora, in una giornata simile, saranno meravigliosi. Ma dobbiamo sempre ‘inseguire le ambizioni’, dice lo zio Jan”. (24 luglio 1877 a Theo).
E poi sbirciare nei suoi venticinque anni: “La lingua dei minatori non è molto facile da capire, ma loro capiscono bene il francese, a condizione però che uno parli veloce e senza esitare, perché allora somiglia al loro dialetto che viene parlato a una velocità sorprendente. A una riunione questa settimana ho detto che Gesù Cristo è il Maestro che può dare forza, consolazione e sollievo a un uomo come il macedone degli Atti, a un lavoratore, un operaio che conduce una vita difficile. Poiché Lui stesso è l’Uomo dei Dolori e conosce le nostre debolezze ed è stato chiamato il Figlio del falegname benché fosse il Figlio di Dio e il grande Maestro guaritore delle anime malate. Colui che ha lavorato per trent’anni in una misera falegnameria perché si compisse la volontà di Dio; e Dio vuole che, a imitazione di Cristo, l’uomo viva con umiltà sulla terra e non ambisca alle cose alte”.
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Si capisce che van Gogh rifuggiva le visioni di maniera non solo per motivi balndamente sociologici di critica d’arte, per esito programmatico di un realismo che ormai “era nell’aria, ma proprio per la sua tempra, per le sue letture, le sue idiosincrasie.
Van Gogh conosce i contadini come Balzac, non tanto quello degli Sciuani (1829) quanto semmai nella versione più meditata, meno romanticamente compiaciuta del Medico di campagna (1833). La dedica del Medico sembra prefigurare van Gogh, il suo lettore ideale: “Alle anime ferite, ombra e silenzio” perché, come dice il suo protagonista, “bisogna ogni mattina trovar lo stesso coraggio, il coraggio rarissimo, anche se all’apparenza facile, del professore che ripete continuamente la stessa lezione, un coraggio, d’altronde, piuttosto mal ricompensato”.
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Meglio Balzac allora, lo diceva in una lettera del 1883 a un collega pittore: “A proposito di scrittori, non credi anche tu che autori come Dickens, Balzac, Hugo e Zola non si possono conoscere, se prima non si ha una visione d’insieme di tutta la loro opera? Non riesco ad accettare che un pittore non debba o non possa fare altro che dipingere. Con questo voglio dire che mentre molti considerano la lettura dei libri una perdita di tempo, io al contrario ho l’impressione che – lungi dal lavorare meno o peggio, se si cerca di approfondire un altro ambito così strettamente legato alla pittura – si lavori addirittura di più e meglio”.
Andrea Bianchi
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Scelta di lettere di van Gogh
A Theo, 23 dicembre 1881
A volta, temo, butti via un libro perché è troppo realistico, abbi pietà e pazienza con questa lettera, e leggila in ogni caso fino in fondo, anche se è cruda. (…) Per quelle donne che vengono condannate dai sacerdoti e disprezzate e maledette, non è una novità che io provi qualcosa, un affetto perfino più antico rispetto a quello per Kee Vos [la prostituta con cui conviveva aveva un figlio da altro uomo]. Spesso, quando ero solo soletto e mi sentivo triste, mezzo malato e in miseria, camminavo per strada senza un soldo in tasca e le guardavo, e invidiavo gli uomini che potevano andare con loro, e avevo la sensazione che quelle povere ragazze fossero mie sorelle per le circostanze e le esperienze della vita. Vedi, è un antico sentimento, molto profondo. Da bambino, mi è capitato di guardare con simpatia e rispetto infinito il volto mezzo avvizzito di una donne su cui era come se ci fosse scritto: di qui sono passate la vita e la realtà. Ma i miei sentimenti per Kee sono del tutto nuovi e diversi. Senza saperlo, lei è rinchiusa in una sorta di prigione, ha una specie di rassegnazione per tutti i gesuitismi delle persone pie che ora non mi impressionano più perché ho imparato a leggere ‘sotto le carte’. Ma lei ci è attaccata e non sopporterebbe di scoprire che il sistema di rassegnazione, peccato, Dio e non so cos’altro, sia pura finzione. (…) Dio onnipotente non può respingere un peccatore. E ora adieu, Theo, scrivimi presto. Una stretta di mano nel pensiero,
sempre tuo Vincent
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A Emile Bernard, 26 giugno 1888
Caro Bernard,
fai benissimo a leggere la Bibbia – comincio da qui perché mi sono sempre astenuto dal consigliartelo. (…) la consolazione di questa Bibbia così desolante, che suscita la nostra disperazione e la nostra indignazione – che ci rattrista sul seri, scossi dalla sua piccolezza e dalla sua follia contagiosa – la consolazione che essa contiene, come un nocciolo in una scorza dura, una polpa amara, è Cristo. (…) Le Sue parole che non passeranno, come invece il cielo e la terra, parole che da gran signore prodigo non si degnò nemmeno di scrivere, sono una delle vette più alte, la più alta vetta raggiunta dall’arte, che diviene forza creatrice, pure potenza creatrice, e ci portano lontano, elevandoci al di sopra dell’arte stessa. (…) Tuttavia la nostra vita concreta – quella di noi pittori – è ben umile. Vegetando sotto il giogo abbrutente delle difficoltà di un mestiere quasi impraticabile in questo pianeta tanto ingrato, sulla cui superficie ‘l’amore dell’arte fa perdere l’amore vero’. (…) Dimmi un po’ a che punto sei per quanto riguarda il servizio militare? Vai in Africa o no? Cerca di farti buon sangue – con l’anemia non si va lontano – la pittura è una faccenda lenta – bisognerebbe cercare di avere una costituzione coriacea – una costituzione longeva – vivere come un monaco che va al bordello una volta ogni quindici giorni – io lo faccio, non è molto poetico – ma insomma sento il dovere di subordinare la mia vita alla pittura. (…)
Tuo Vincent
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Alla sorella Willemien, 28 aprile-2 maggio 1889
Mia cara sorella,
la tua lettera mi ha commosso soprattutto perché mi informa che sei tornata ad accudire la signora Duquesne (…) La gente di qui [Arles] probabilmente non ci vede granché, ma io ho sempre desiderato dipingere per chi ignora l’aspetto artistico di un quadro. Che dirti? Tu non conosci i ragionamenti del buon Pangloss in Candido di Voltaire e nemmeno Bouvard e Pecuchet di Flaubert. Sono libri scritti da un uomo per un uomo e non so se le donne li capiscono. Ma questo ricordo mi sostiene spesso in ora e giornate o notti poco piacevoli e invidiabili. Ho riletto con estrema attenzione Lo zio Tom di Beecher Stowe proprio perché è un libro di una donna, scritto, dice lei, mentre preparava la minestra ai suoi figli, e poi ho riletto con altrettanta attenzioni i Racconti di Natale di Ch. Dickens. Leggo poco per rifletterci di più. È molto probabile che io debba ancora soffrire molto. E questo, a dire il vero, non mi va affatto, perché non vorrei mai e poi mai una carriera da martire. Ho sempre cercato tutt’altro che l’eroismo, che non ho, che certo ammiro in altri ma che, te lo ripeto, non credo sia il mio dovere né il mio ideale. (…)
Tuo Vincent
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A Theo, 26 novembre 1889
Mio caro Theo,
(…) l’unica strada è lavorare lentamente e a lungo e ogni ambizione di tenerci a fare bene è sbagliata. Perché, salendo sulla breccia ogni mattina, bisogna sbagliare tante tele quante sono quelle riuscite. Per dipingere sarebbe quindi indispensabile una vita tranquilla; e con i tempi che corrono, che si può fare? (…) Eh, bisognerebbe inventare un procedimento di pittura più veloce, meno costoso dell’olio, ma duraturo. Un quadro… finirà per diventare banale come una predica, un pittore finirà per sembrare in ritardo di un secolo. Però è un peccato che sia così. Ma se i pittori avessero capito più Millet, come uomo, la situazione sarebbe diversa. Bisogna lavorare quanto un contadino, e con poche pretese come lui, se si vuole durare. E invece di fare mostre grandiose sarebbe stato meglio rivolgersi al popolo e lavorare perché ognuno potesse avere in casa quadri o riproduzioni che fossero un insegnamento come l’opera di Millet. (…)
Tuo Vincent
[ha collaborato Martina dell’Annunziata]