Dario Barbera, Spolia, Minerva edizioni, 2020, pp. 72
Giancarlo Pontiggia sostiene servisse una collana di poeti giovani (non premiati: giovani) all’editore Minerva. Scrive per l’esattezza nel viatico apposto a ogni volumetto di poesia della collana preposta a secernere il meglio dal leggibile tra i nuovi autori, oggi: “Perché i giovani, dunque? Perché le parole della poesia, il loro empito originario, affondano nell’esperienza dell’adolescenza, quando tutto ci appare nuovo e insieme arcaico: quando, cioè, sentiamo il premere di forze nuove, ma anche la nostalgia di qualcosa dal quale ci siamo sradicati per sempre: in quel momento, la parola della poesia si dà come l’unica forma che sappia saldare i moti contraddittori e incessanti della vita in una forma intensa, forte, decisiva.”
Non saprei specificare meglio perché serve leggere, sfogliare Spolia di Dario Barbera. Classe 1984, quando capitò di incrociarlo nel 2012 aveva già qualcosa di stampato, qualcosa di premiato.
Ricominciò in silenzio, abbozzando con pudore siciliano quello che stava inventando.
Certo otto anni non sono troppi né troppo pochi per reclamare il lasciapassare della storia e del fatto compiuto. Ma tant’e’. Ritrovarlo a stampa è un privilegio, un incontro con un passato comune che non è mai passato del tutto.
Spolia di Dario Barbera è un volumetto prestigioso non tanto per i nomi che vorrebbero tutelarlo quanto per le dichiarazioni all’ingresso: cinque domande secche a Barbera prima delle sue poesie.
Un quesito che gli viene posto ruota intorno alla professione poetica e Barbera che ha scritto in endecasillabi e settenari spara ad alzo zero sul liberalismo poetico: “Faccio fatica a riconoscermi nella vita dei poeti di oggi, piena di incontri e discorsi per addetti ai lavori. Di poeti per poeti. Mi infastidisce inoltre una certa ipocrisia di quei poeti logocidi che prima ambiscono a non farsi intendere e poi si glossano (o si fanno glossare).
“Più in generale, mi sembra che l’inattualità della poesia abbia quasi costretto quel gran dilettante che è il poeta a professionalizzarsi, a sovrabbondare si ipertesti e istruzioni per l’uso, pur di farsi leggere e intendere. E lo dico non senza imbarazzo, qui sulla soglia virtuale di un testo che vive di nostalgia d’assoluto. Sento infatti che su questa mia contraddittorietà cade in taglio una pagina dello Zibaldone, dove Leopardi afferma la necessità che la poesia non vada apparecchiata con lettere d’accompagnamento. In questo senso, tenere distinta la parola poetica dall’algomondo dei network e dei social non è a mio modo di vedere una semplice posa da laudator temporis acti, ma una reazione civile al dominio della Tecnica e al destino dell’uomo-mezzo”.