Andrea Gibellini, L’elastico emotivo, Incontri editrice, Sassuolo 2011, pp. 262
Un’astronave in forma di libro torna dallo spazio profondo del discorso poetico. Si intende profondo anche nel senso di lontano.
Cioè, la poesia dei social è presente, più che presente, invadente. Talmente presente che si vede passare continuamente e non si ricorda. La poesia che piace a me, il discorso sulla poesia che piace a me (e del quale mi intendo di esser parte) sta in un momento differente – non migliore ma senz’altro più serio, meno intellettualistico e perciò meno frivolo. E il libro che torna dieci anni dopo me lo ha mandato l’autore stesso, col quale mi pregio di scambiare opinioni ogni morte di Papa, ormai da quasi 25 anni. Lui si chiama Andrea Gibellini e io ci parlo volentieri perché ci intendiamo e anche se non ci intendessimo andrebbe bene lo stesso.
Per cominciare tendenzialmente diffido di quei poeti che fanno i critici, ma soprattutto di quei critici che fanno i poeti. Ma alla fine se sei l’uno sei pure un po’ l’altro. Il fatto è che in questo Paese letterario, che vive indifferente ai più e arroccato a quell’altro Paese, quello infame della politica e quello “bagongo” della società detta Italia, ci sono troppi poeti e ci sono pochissimi critici. Ma questo è un altro problema.
Dieci anni fa Gibellini ha pubblicato questa antologia di articoli dedicati ai poeti e alla poesia italiana e non solo. E credo sia il suo libro più bello. Non me ne vorrà Andrea, ma qui dentro ci sono anche le sue poesie. Debbono essere interpretate tra le righe della prosa, ma ci sono.
Per esempio il primo capitolo Irradiazioni è di per sé un lungo poema sinestetico, come se il relato medico dell’effetto che l’attraversamento del paesaggio da parte del poeta esonda nella lingua fosse di per sé più forte come sentimento che come figura retorica direttamente citata in parole in qualità di sinestesia. Voglio dire che certa prosa è poetica perché si fa pane, diventa cioè concreta e rimbalza di senso in senso come sentimento scaturito dalle parole. Ma per farle girare in quel modo le parole della poesia, cioè con quella semplicità che sembra facile a farsi ci vuole una conoscenza e un’esperienza che non si accumula soltanto con i corsi di scrittura e con le tesi di dottorato, e a volte manco con gli anni. Serve un atteggiamento prima nervoso che morale nei confronti dell’esistenza, sia quella umana sia quella del mondo di cui facciamo parte.
Di questo parla la mia poesia, di questo si irradia la prosa e la poesia di Andrea Gibellini per arrivare dritte all’amigdala, al cuore pulsante della consapevolezza, quella che non fortifica fuori da sé, ma costruisce pareti di trasparenza dentro di sé.
Io e Gibellini siamo d’accordo su Pascoli (oso dire perfino su D’Annunzio) e su Montale; ci ha inondato a trent’anni la Bachmann e non l’abbiamo più dimenticata; corriamo lieti verso Heaney e Fortini; ci piacciono pure Sereni e Dylan Thomas; siamo a perfetto agio con quel verso strano di Carver, che un altro amico, Riccardo Duranti, ha santificato nella materia (nel senso di materiale) dell’italiano (leggete per curiosità come Gibellini riesce a spiegare benissimo la poetica carveriana a pagina 214-215).
Forse non la pensiamo allo stesso modo su Zanzotto e Bertolucci, ma ci piacciono le ottave e i sonetti di Rentocchini e pure tra i contemporanei apprezziamo Umberto Piersanti e Alba Donati.
Questa che voleva essere una recensione pare piuttosto un testo informe di celo/manca, come quando si giocava alle figurine. Eppure non sono figurine i ritratti consegnati a questo libro dall’autore. Sono una voce che ci chiama da una giovinezza ormai esaurita. Tuttavia nel pallore della quiete, quando la parola sale a galla, noi torniamo a quei sentimenti. Anch’io torno a quella tradizione che sempre serve rimestare nella lingua, ancor più indietro.
Siamo caduti qui, caro Gibellini, in questo tempo e sappiamo che non siamo solo di questo tempo. Serve adesso dimostrare a chi sta accanto a noi che esiste una natura di poesia per la nostra generazione dei nati negli anni Sessanta del Novecento, che un elenco serio di poeti è ancora tutto da fare, nettamente. Serve dimenticare le pubblicazioni saggistiche accademiche e le tante antologie d’occasione dove si cita chi ti ha citato da un’altra parte; serve tagliare i ponti con la “di-vulgata corrente”.
Ora noi prenderemo un antidoto della lingua e un vaccino contro l’ipocrisia e la visibilità, e ne faremo un elenco. Perché un elenco sui poeti tra fine Novecento e primi Duemila, che sia un elenco serio e ragionato davvero deve ancora essere compiuto. E che sia onesto!