15 Novembre 2024
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Charlie Watts e il panorama del mito

Ci sono delle cose che, nel tempo, è stato difficile essere: uno dei dodici apostoli, ad esempio, o un ciclista dotato al tempo di Merckx.
C’è modo e modo di interpretare una difficoltà ad essere in rapporto a qualcos’altro, perché in presenza di Merckx si può essere Gimondi, Fuente o un anonimo gregario.

Non deve essere stato facile interpretare il ruolo di Charlie Watts per cinquantotto anni.
Non un Keith Moon, eppure un gran virtuoso a suo modo. Non un Ringo Starr, ma dotato dello stesso profilo ironico e costantemente sorridente nell’espressione.

Avrebbe potuto essere l’omino che dice mind the gap nel Tube, l’indossatore per un catalogo di vendita per corrispondenza, un agente delle tasse oppure la persona dietro i tamburi dei Rolling Stones. Veniva dalla squadra di Alexis Korner, il cui ruolo seminale nella costruzione del rock inglese anni Sessanta è troppo spesso dimenticato. Lì divise la strada con un altro titano delle bacchette, Ginger Baker, con il quale condivideva la preparazione tecnica. Il loro talento si esplicava in modi diversi, che per Watts erano a volte quasi misteriosi: un altro grande drummer, Jim Keltner, ebbe una volta a dire che lo stile di Charlie Watts, semplicemente, non si poteva spiegare.

Inutile dilungarsi in queste brevi note nell’analizzare l’importanza della sua presenza all’interno degli Stones: basta mettere sul piatto Sticky Fingers e ascoltare Brown Sugar per capirlo. Crediamo si possa semplicemente affermare che Charlie Watts è stato non il migliore, ma semplicemente l’unico batterista possibile per far durare quasi sei decenni i Rolling Stones. Un protagonista discreto, forse il più nobile nella difficile arte di contribuire in maniera decisiva senza essere appariscente: in tempi recenti solo Larry Mullen jr. ha saputo interpretare con questo stile il ruolo.

La sua scomparsa pareggia un conto malinconico con i Beatles: un defunto in tempi andati (Brian Jones e John Lennon) e uno in tempi moderni (George Harrison).
Tutto ha fine inevitabilmente, anche se è un’abitudine che non si prende mai quella a vedere dissolto il panorama dei propri miti.