Gérard de Nerval, destino di un “diseredato”
El Desdichado
Je suis le ténébreux, – le veuf, – l’inconsolé,
Le prince d’Aquitaine à la tour abolie :
Ma seule étoile est morte, – et mon luth constellé
Porte le soleil noir de la Mélancolie.
Dans la nuit du tombeau, toi qui m’as consolé,
Rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie,
La fleur qui plaisait tant à mon cœur désolé,
Et la treille où le Pampre à la Rose s’allie.
Suis-je Amour ou Phébus ?… Lusignan ou Biron ?
Mon front est rouge encor du baiser de la reine ;
J’ai rêvé dans la grotte où nage la syrène…
Et j’ai deux fois vainqueur traversé l’Achéron :
Modulant tour à tour sur la lyre d’Orphée
Les soupirs de la sainte et les cris de la fée.
Il Diseredato
Io sono il tenebroso, – il vedovo, – l’inconsolabile,
Il principe d’Aquitania dalla torre abolita:
La mia unica stella è morta, – e sul liuto stellato
È il sole nero della Malinconia.
Nella notte del sepolcro, tu che mi hai consolato,
Rendi a me Posillipo e il mare d’Italia,
Il fiore che piaceva tanto al mio cuore desolato,
E la pergola dove la vite si intreccia alla rosa.
Sono Amore o Febo?… Lusignano o Biron?
La mia fronte è ancora rossa per il bacio della regina;
Ho sognato nella grotta dove nuota la sirena…
E due volte vincitore ho attraversato l’Acheronte:
Modulando di volta in volta sulla lira di Orfeo
I sospiri della santa e le grida della fata.
Dei dodici sonetti che compongono la raccolta Les Chimères (1854) di Gérard de Nerval (1808-1855), questo che propongo nell’edizione a cura di Henri Lemaître (Oeuvres, Classiques Garnier, Paris 1958, vol. I, p. 693) mi pare che sia il più celebre. Ma che cosa racconta? Qual è il suo senso? Alla prima lettura è come penetrare in una nebbia di simboli, cercare di diradarla con una torcia che finisce, invece, per trasformarla in un muro compatto e luminoso. La coltre di immagini che rapidamente si succedono nei quattordici versi non arresta però la nostra lettura: la immerge in una giostra di emblemi baluginanti (s’è pensato anche che il poeta si sia ispirato ai tarocchi: la Torre, il Sole, la Malinconia…), i quali tengono a gelida ma suggestiva distanza dalla realtà la letteratura in cui la vita del poeta iscrive la sua esistenza. Nerval non parla di sé in termini autobiografici, cede la parola agli emblemi della Poesia: si dispiega davanti a noi un’accorta maglia di riferimenti colti, che filtrano e decontaminano il reale. È come se il poeta si rendesse conto che parlare di sé («Je suis…», recita l’incipit del primo verso), mettersi a nudo, non bastasse. Va bene dirigere l’attenzione del lettore su limiti e difetti di una soggettività compromessa (tenebrosa, vedova, inconsolabile) del poeta, come accade nella prima quartina, ma si rischia di girare in maniera allusiva ed elusiva (chi è che consolò il poeta? da dove spuntano quei ricordi “italiani”? a che cosa rimandano?) intorno al mistero che si annida in interiore homini e si rifiuta di mettere a fuoco la sua immagine, a meno che l’io poetico non si cali, per sottrarsi a eventuali rappresaglie autoanalitiche, nelle vesti di altri personaggi (Amore o Febo, Lusignano o Biron?), vagheggiando un bacio speciale, ripensando al sogno compiuto nella grotta della sirena. Certo, il linguaggio dell’interiorità non è una conquista pacifica alla metà dell’Ottocento (lo sa chiunque ripercorra – per fare un esempio coevo – la ricerca poetica leopardiana): in questo caso, però, il poeta sembra provare gusto a rendere sempre più enigmatico un linguaggio che lo rappresenta come novello Orfeo («Et j’ai… traversé l’Achéron…»). Alla fine cosa resta? Non resta che tornare indietro e ricominciare la lettura.
Allora ripartiamo da quella torre “abolita” del Principe d’Aquitania. Non sarà da ravvisarvi un frammento dell’automitografia di Nerval, il cui vero cognome era Labrunie (che riaffiora, come nel ritorno di un rimosso, in quella «tour abolie»), invece che, come farebbe presupporre il testo, l’ipotesi di frequentazioni altolocate? Se il cognome è camuffato, non si può dire che il riferimento all’Aquitania sia casuale: Nerval era di Agen, nella detta regione, dove abbondano i castelli, in piedi e diroccati. E che dire della “stella” citata nella poesia? Pare che rimandi alla figura di Sophie Dawes, che il poeta amò, e sospirò dopo la sua scomparsa, il 15 dicembre 1840. La poesia di Nerval, del 1853, ne porta ancora il lutto, qui simboleggiato dal Sole nero della Malinconia. Come la mettiamo con la seconda quartina in cui l’autore leva una exhortatio a un’entità spirituale che lo avrebbe consolato nelle notti cupe di chi attende la morte («Dans la nuit du tombeau»)? Mentre si spalanca la lunga “notte dell’io” della poesia europea, ecco all’orizzonte stagliarsi Posillipo: è il mare del Bel Paese cui Gérard era tanto affezionato; e quel fiore, che, stando a un manoscritto annotato della poesia di Nerval ritrovato fra le carte di Eluard, pare sia un’aquilegia. Nella breve seconda quartina, sommessa nel tono, è come se il poeta vi avesse registrata una breve lista di plaisirs che si chiude in quella strana alleanza tra la vite e la rosa, l’ebbrezza del vino e la passione della giovinezza. Quindi sopraggiunge la prima terzina, concentrata a raddoppiare gli alter-ego del poeta: Amore e Febo, Lusignano e Biron, per i quali non si sprecherà mai abbastanza inchiostro per completarne il profilo e comprendere la loro presenza in questo sonetto. E chi è quella regina che fa arrossire il poeta baciandolo? Se non è l’«étoile» morta nella prima quartina, forse è l’incarnazione dell’archetipico Eterno Femminino che attraversa tutta l’opera di Nerval (da Sylvie a Aurélia a Isis ecc.) e non solo (com’è vero che percorre tutto il secolo giungendo fino a Carducci)? E che cosa ha sognato il poeta nella grotta dove nuota la sirena? Fatto rilevante è che il “diseredato” non è solo sopravvissuto alla seduzione irresistibile della sirena, è riuscito anche a varcare due volte l’aldilà, intonando sulla lira di Orfeo certe melodie che hanno il sapore dei sospiri di una «sainte» e i gridi di una «fée», per le quali anche in questo caso il manoscritto ci viene in aiuto, indicando due nomi: «Melousine ou Manto», l’una fata dei boschi, nelle spoglie però di una sirena, fondatrice della casa dei Lusignano del Poitou; l’altra, maga divinatrice, figlia di Tiresia, resa famosa da Virgilio. Quale risarcimento più fragile dell’emulazione dell’esempio del principe dei poeti, Orfeo, all’inseguimento di un fantasma muliebre che se lo vedrà sfuggire nell’atto stesso di volgersi per guardarlo? Quale risarcimento più amaro per un Nerval che si toglierà la vita il 26 gennaio 1855 impiccandosi a un cancello?
Non è necessario che tout se tient per comprendere El Desdichado di Nerval. Quanta bibliografia potremo mobilitare per penetrare nella trama di simboli e riferimenti che correla questo piccolo tessuto di suoni che prende la forma di un sonetto? Il punto di vista di un diseredato è quello di uno che, tagliato fuori da una tradizione familiare o etnica o culturale, presago della sua “disappartenenza”, appare ormai disposto a rinunciare al proprio nome, indossando i panni umili di un emarginato (così come fa l’Ivanohe di Walter Scott che al torneo di Ashby-de-la-Zouche si dichiara con lo pseudonimo di Desdichado per proteggere il rientro in patria di Riccardo ed evitare di svelarsi al padre).
Rinunciare al proprio nome, dunque, e accettare il “destino” (titolo originario della poesia – ci informa l’accurato commento di Lemaître – era Le Destin, prima di El Desdichado). Il poeta non ha la pretesa di comprendere in tutta la sua ampiezza l’orizzonte storico in cui gli è assegnato vivere, ma può disseminare e disperdere, senza rimpianto, il fragile patrimonio simbolico della poesia, grazie al quale interpreta il suo mondo interiore, e tradurlo in una testura enigmatica. È qui la difficoltà del testo poetico di Nerval: la sua ipotesi di oscurità è l’esito della deformazione soggettiva del linguaggio con cui l’io del poeta, a prescindere dal suo patto con il lettore, può permettersi di accostare liberamente personaggi e situazioni affatto lontani per rimuovere il proprio sé dal centro della scena. È questo che ha fatto, del presente sonetto di Nerval, uno dei passaggi sintomatici di un’epoca che evita di fare i conti con sé stessa, e guarda solo avanti, alle «magnifiche sorti e progressive». Non è necessario giungere al senso, sembra avvisarci alla fine il poeta, l’importante è non arrendersi alla sua “ricerca”, o almeno non escludere l’ipotesi della sua esistenza. Quanti hanno provato a raggiungere la verità, prima di riconoscere lo scacco e la derelizione, prima di proclamarsi, nella sconfitta imminente, diseredati? D’altronde, qualora la verità si rivelasse, la vedremmo apparire come in uno specchio che deforma la nostra immagine, caricandola di oscuri presagi. Siamo davvero noi gli “eredi” di una civiltà nella quale ci illudiamo riconoscere la nostra identità? O non dobbiamo ammettere che non sono saltati soltanto i valori che ci legano, ma non ha più senso parlare di “eredità” (ancor meno di identità)?
A riprova della longue durée di tale riflessione, basti ricordare come una famosa poesia di Montale dal titolo El Desdichado (in Quaderno del ’71 e del ’72, 1973) e una omonima di Caproni (ne Il Conte di Kevenhüller, 1986) ne facciano un cameo di straordinaria finezza. Così Montale:
Sto seguendo sul video la Carmen di Karajan
disossata con cura, troppo amabile.
Buste color mattone, gonfie, in pila sul tavolo
imprigionano urla e lamentazioni.
Col paralume mobile vi ho gettato
solo un guizzo di luce, poi ho spento.
Non attendete da me pianto o soccorso fratelli.
Potessi mettermi in coda tra voi chiederei l’elemosina
di una parola che non potete darmi
perché voi conoscete soltanto il grido,
un grido che si spunta
in un’aria infeltrita, vi si aggiunge,
e non parlare.
E questo è Caproni:
S’avvicinava al bicchiere
– sempre – con cuore sereno.
Qualcuno pensava – sempre –
a renderglielo veleno.
Dall’emarginazione al sentimento di estraneità alla solitudine, il diseredato del Novecento ha oltrepassato il limite fra sé e il mondo, e se nella poesia di Montale si allontana dalla farsa che si recita in televisione, e lascia dov’erano, sul tavolo, le buste piene di inutili manoscritti («urla e lamentazioni»), certo solo di non aver altro da chiedere che «l’elemosina / di una parola» (nella quale echeggia «Non chiedermi la parola che squadri…»), o altrimenti di tacere; nel frammento poematico di Caproni, aspetta di bere al tavolo quell’ultimo bicchiere che conterrà il veleno, e non ha ora altro da fare che imprecare contro la «iattura» (così la chiama nel frammento successivo della raccolta), certo di aver perso la sua «compagnia», di non appartenere ad alcuna famiglia o tribù, di non avere più parole radicate nel sentimento dei suoi simili, in grado di stabilire un contatto più autentico con loro e tra loro e la realtà.