Marco Giaconi, profilo destro
Un discorso su Marco Giaconi a distanza di un anno dalla scomparsa potrebbe assumere varie forme, e non solo per la bocca che lo pronunci o, come in questo caso, per la mano che lo vada a comporre. Dico così perché Marco Giaconi era figura eminentemente complessa, se mai altre ve ne furono come lui nella mia vita e quindi il mio discorso rischierà di restare limitato entro una prospettiva: che però può consentire una messa a fuoco efficace.
Marco Giaconi è entrato nella mia vita per la prima volta tramite la libreria pisana dell’Einaudi. La libraia con cui allora ero tutto sommato in confidenza mi disse che quel signore faceva parte dei Servizi. Dico così senza tanti fronzoli o orpelli, per come me lo ricordo e rischio ancora di vederlo, quasi di sentirlo com’era in quel giorno del 2015 Marco Giaconi. Elegante, distinto ma non disinvolto. Poteva essere una delle molteplici sembianze che assumeva l’uomo colto pisano, dinoccolato per il peso di borse e giornali vari. Ma in lui c’era sicuramente dell’altro.
Lo riagganciai sui social, e questo è solo uno dei tanti tratti surreali della sua figura: presente sulla rete quasi a non volersi perdere nulla della contemporaneità, lui che sapeva di esoterismo arabo e diplomazia sovietica, di ravioli di carne con ripieno di pasta e di casini pisani, francesi – dal punto di vista agevolmente storico, si intende.
Quando gli scrissi ero uno dei consueti spersi del post-laurea, e non mi rispose. La differenza sostanziale tra un mio messaggio e quello di un altro normalista, a Giaconi che era fedele alla bandiera in quanto ex-allievo della scuola pisana, era però in questo: nel mio messaggio avevo menzionato la tesi su Cantimori con una miriade di documenti inediti.
In questo modo Giaconi mi scrisse l’anno successivo, e parlammo molto sui social prima di incontrarci a Pisa. Quella sera stessa incontrai l’ex direttore di Gladio, Gironda, che per semplicità del destino è scomparso solo pochi mesi prima di Marco Giaconi.
Da allora la mia vita non è stata più, letteralmente, la stessa. Marco Giaconi è stato il compendio dello zio per la generosità con cui mi invitava da Giannino a Milano, del professore per chi come me aveva fame di intelligenza ed era stato escluso dell’accademia in quando di destra (io, non l’accademia), dell’epicureo libertino credente negli astri per chi come il me di allora si strusciava appena alla vita con la “Vi” maiuscola.
Gli incontri con Marco Giaconi si contano sulle dita di due mani eppure lui rimane la figura emblematica della mia transizione da ventenne a trentenne, se posso esprimermi così, fuori dai limiti rigorosamente aurei del “tombeau”. Qui parliamo di Marco Giaconi, non di Leo Spitzer, io sono un impiegato commerciale, non sono Gianfranco Contini.
Quello che mi importa sottolineare in chiusura, anche se non sono bravo a tirare le fila come Raimondi, è la figura umana di Marco Giaconi. Era un agente in pensione anche se diceva, sornione, che quelli come lui al pari dei preti non vanno mai in pensione. Era uno spione nella dimensione dell’uomo che parla a bassa voce sotto i portici pisani, un Bond nella dimensione della conoscenza – strafottente, a tratti – della psiche femminile. Era un uomo gigante nel suo metro e settanta.
Era e rimarrà sempre il miglior allievo della Normale degli ultimi cinquant’anni. Non era un secchione, era un uomo dei Servizi. Anche se il suo periodo è stato la Prima e non la Seconda Repubblica, i suoi segreti sono i nostri segreti. Marco Giaconi ha vissuto sul crinale della verità e della creazione della verità, ciò che lui chiamava surrealtà e vorrei tanto poter citare dalle mail che mi scriveva dopo i nostri incontri rapinosi, nel fuoco degno degli amanti intellettuali. Ma quelle mail sono in una chiavetta a Forlì, credo.
Era un uomo estroso, mi spinse a scrivere un romanzo semplicemente dicendomi “E scriva, cazzo!”. Era un uomo morbido nella sua ricerca finale di qualcuno con cui confidarsi, ma il suo rientro alla normalità, per così dire, non era quello di chi ha visto l’orrore letterario della carne infame di Conrad. Marco Giaconi semplicemente cercava un figlio, cercava un normalista di destra, finalmente, come mi disse quella mattina di pioggia di giugno 2017, davanti a un aperol delle undici: entrò Settis al bar più chic di Pisa con una solita dottoranda e Giaconi mi disse dopo che quell’altro uscì. “Non può avere fighe, io ho invece finalmente trovato un normalista di destra”.
Quel giorno indossava i gemelli del Sismi.