Paolo Ruffilli, Le stanze del cielo (Die Zimmer des Himmels), Verlag in Wald, Rimbach 2008 (Marsilio 2008)
Torniamo a leggere un po’ di fondamentali. Non per studio, ma per piacere di scoprire (o riscoprire) una voce nitidissima e un argomento spesso accantonato sotto al mobile, insieme alla polvere. Parlo delle poesie di Ruffilli che hanno per tema i carcerati e i drogati. Non siamo di fronte a un trattato poetico moralistico, ma davanti alla carne viva del racconto in poesia, delle emozioni che si fanno parola e delle parole che tornano alla carne.
Paolo Ruffilli è come Duke Ellington. Nella poesia italiana è stato nel secondo Novecento un classico epigono del neolirismo e poi, nel corso dei decenni fino a noi, ha attraversato, con la sua voce sempre riconoscibile, mode e tendenze, confrontandosi con esse senza mai rinunciare alla sua unicità.
Il critico Alfredo Giuliani ha scritto che il suo verso “ha una cantabilità abilmente sommessa, antilirica”. È vero, i poemi di Ruffilli, pur se non rispondono a una versificazione tradizionale e chiusa, hanno una musicalità interna fortissima. (E in questo mi riconosco molto vicino al suo modo di intendere il ritmo e il verso: la musicalità dell’andamento lessicale/fonetico).
Se mi sono permesso di cominciare questo testo con un paragone musicale è anche perché lo stesso Giuliani ha scritto: “la ricerca di una poesia che ha insieme i sapori forti della vita e il ritmo implacabile del pensiero, in una musica inconfondibile e direi irriducibile, unica nel suo genere da noi; una musica elegante e rarefatta che mi ha sempre colpito e coinvolto, tra Béla Bartok e il cool jazz”.
Ma a leggere a fondo i suoi versi e, per esempio, questa raccolta (uscita anche in Germania), la musicalità interna alla poesia di Ruffilli non nasconde una vocazione a farsi capire dal lettore, un atteggiamento narrativo che resta poesia ma senza retorica. Ruffilli è un poeta riconoscibilissimo che ha trovato una voce da subito negli anni Settanta, diventando poi famoso nell’ambito letterario per il volume Piccola Colazione (Garzanti, 1987). Mentre mi ha sempre incantato il suo volume Camera Oscura del 1992: indagine poematica sulla memoria che “vapora” come l’esistenza (e l’essenza dell’io granitico che Ruffilli ha sempre allontanato da sé).
Due versi danno il segno di cosa significa essere allontanati dalla società. Nella poesia “Letti” l’autore chiude così: “Tutto spostato indietro/tutto più lontano”.
Come un vecchio che non riconosce la propria città anche un carcerato ha una vita che è indietro, lontana, perché quella che si descrive in questo libro è una vita in differita, un eterno ripetersi di gesti e orari, di riti e regole che la prigione impone. Non c’è lamento, non ci sono rimpianti, né facili salvacondotti e tantomeno sciocchi buonismi antisistema. Chi sta dentro è lì per qualche motivo. Tuttavia la poesia dovrebbe sospendere il giudizio (e nel caso di Ruffilli lo fa) nei confronti di chiunque. Non siamo di fronte al tribunale culturale di un’epoca più o meno aperta, più o meno democratica o consapevole; non siamo nel campo filosofico del dovere morale o dell’analisi fenomenologica, e vieppiù siamo lontani dai sociologismi in voga. Ruffilli entra dentro un carcere, e più entra dentro una cella, e più entra dentro un carcerato e ne restituisce i sentimenti senza sentimentalismi, i rimorsi senza retorica, le imprecazioni con la rabbia contenuta di chi sa che non è lì per caso, ma è umano e la sua vita tagliata fuori ha comunque un valore. C’è un campo che niente delle cose materiali e metafisiche del mondo possono dire e che solo la letteratura può affrontare: il campo di quel che è vero senza verità, in tutte le sue sfaccettature possibili e anche in quelle impossibili. La fede nella poesia può raccontare l’uomo in qualsiasi circostanza.
“Vorrei scappare/da tutti i posti/della mia vita”, scrive l’autore nell’ultima poesia di questo libro, facendo parlare un tossicomane che attraversa tutta la sezione “La sete, il desiderio”. Non c’è compiacimento dello sballo, forse sale qualche ragionamento che indugia in una coscienza martoriata da un desiderio di benessere che recita su un palco di morte, quello della tossicodipendenza da eroina. Ruffilli esprime una maestria quasi orientale: un’osservazione acuta ma senza giudizio. Come una specie di monaco-letterato trasfonde tutte le debolezze e le paure, le voglie e i bilanci in una mente che altalena tra una dipendenza e una coscienza di perdita e di perdizione. E in lui non c’è sfera giudicante, ma soltanto il racconto poetico di una coscienza che attraversa l’essere dipendente. E tutto questo lo fa esprimendolo in una forma occidentale di poema compiuto e disponibile come un canto all’orecchio del lettore.
Ruffilli con questo libro entra dentro la vita dei fantasmi delle nostre società post-industriali e per un tratto si accompagna alle loro storie, alle loro esperienze, che tramuta e accorda armonicamente in una poesia scabra ed essenziale.