Il pallore della morte
La musica inglese degli anni Sessanta è stata soprattutto un serbatoio di voci: penso a Graham Bond, Roger Daltrey, Eric Burdon, più tardi a Plant e Rod Stewart. Gary Brooker era una di queste voci, “un tesoro del rock inglese che andrebbe onorato quotidianamente”, come ha scritto un amico – anche lui grande cantante – sui social ricordandolo. La voce di Brooker rimane sempre legata a quell’attacco fuori dal tunnel dell’organo, We skipped the light fandango, anche se nel tempo è stata molto altro. Viveva all’intreccio tra rock, blues e soul, quel magico intreccio che ha costruito il rock vero, che ne ha scritto la leggenda, che ha trasformato in paradigma per i posteri ineludibile una rivisitazione culturale di modelli importati dagli Stati Uniti.
Non vorrei appiattire Brooker su quell’attacco, ma lo “scalpicciare del fandango” – come lo definiva Montale – risuona inevitabile come un’ossessione. Destinato a vivere su un’icona, Brooker non si era rassegnato ed era divenuto un testimone continuo di quel periodo fondativo. Allo stesso incrocio, in tempi e modi diversi, si era seduto Mark Lanegan. Credo che a un certo punto chi aveva ambizioni di cantare indie, prima almeno che arrivassero Cobain e Vedder, si sentisse o più J.Mascis o più Mark Lanegan. Per quanto fossi maggiormente devoto ai Dinosaur jr., tengo carissimi i vinili degli Screaming Trees e le successive, diaboliche e alcoliche, incarnazioni di Lanegan.
Ci lasciano, silenziosamente, in tanti: Scaramouche, will you do the Fandango?