27 Dicembre 2024
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Bombe e veleni, 30 anni fa la strage di Capaci

“Antonino Gioé mi dice: via via via. Me lo dice tre volte. Alla terza io aziono il telecomando”. È Giovanni Brusca, piazzato sulla collinetta che domina Capaci, a scatenare l’inferno sull’autostrada. La carica di esplosivo preparata dall’artificiere Pietro Rampulla e piazzata sotto un tunnel fa volare l’auto di Giovanni Falcone. Il giudice viene stritolato con tre agenti di scorta: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. La moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, morirà poco dopo in ospedale. L’autista Giuseppe Costanza sta sul sedile posteriore e si salva per questo.
Trent’anni fa quello che uno degli esecutori, Gioacchino La Barbera, chiamerà “l’attentatuni” chiude i conti con l’uomo che impersona il simbolo della lotta a Cosa nostra. Le sue inchieste sulla mafia e sui boss hanno cambiato la storia. E non soltanto la storia giudiziaria.

Falcone è l’uomo che, con l’apporto di decine di collaboratori a partire da Tommaso Buscetta, ha ricostruito la struttura militare e verticistica della mafia, ha individuato esecutori e mandanti della grande mattanza di Palermo, ha allargato le maglie delle relazioni tra Cosa nostra e il potere.
Con Paolo Borsellino e gli altri componenti del pool di Antonino Caponnetto ha istruito il maxiprocesso e mandato a giudizio un esercito di 474 imputati. In quegli anni il pool mette a fuoco un nuovo metodo investigativo che fa leva sulla ricerca dei soldi e dei patrimoni della mafia, il terreno nel quale si formano gerarchie e si saldano alleanze e nuovi interessi. Il potere di Cosa nostra si insinua nel tessuto produttivo e nei gangli vitali dell’economia mentre si fa strada un attacco allo Stato che spesso assume una dimensione terroristica. “Bisogna fare la guerra per fare poi la pace” è la strategia di Totò Riina che delinea i presupposti di una trattativa destinata a sancire un principio di impunità. La mafia così uccide magistrati, giornalisti, investigatori, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre promotore della legge che solo dopo la sua morte verrà approvata: codificherà il reato di associazione mafiosa e introdurrà il sequestro e la confisca dei beni. Il maxi processo è la risposta più forte e più emblematica che lo Stato possa mettere in campo.
L’impianto accusatorio, irrobustito dalle rivelazioni di Buscetta e di una folla di collaboratori, regge fino in Cassazione. La sentenza che decreta la sconfitta della linea sanguinaria e spietata dei vertici di Cosa nostra apre la strada alla stagione stragista.

Il primo segnale terrificante è l’assassinio dell’onorevole Salvo Lima: il proconsole andreottiano in Sicilia, l’uomo che, secondo la magistratura, era uno dei referenti politici della mafia viene eliminato perché non sarebbe stato in grado di condizionare l’esito del maxiprocesso. Con la sua morte viene anche messa fuori gioco la candidatura forte di Giulio Andreotti a capo dello Stato. Quando viene ideato e organizzato l’attentato dell’autostrada Falcone è direttore degli affari penali del ministero della Giustizia: un posto-chiave dal quale vengono promosse le linee dei più importanti provvedimenti antimafia. Falcone è anche l’ideatore della Dna, la Procura antimafia nella quale non arriverà mai. È fermato dal clima ostile che lo circonda sin da quando ha cominciato a occuparsi di mafia (“Rovina l’economia”, si dice in procura generale) dopo un breve passaggio alla sezione fallimentare del tribunale. Il suo itinerario è contrassegnato da grandi risultati giudiziari e da clamorose sconfitte personali. Prima che il Csm gli preferisca l’anziano Antonino Meli a capo dell’ufficio istruzione Falcone viene infangato dalle lettere del “corvo”, che lo accusa di avere protetto le sanguinose vendette di Totuccio Contorno, e nel giugno 1989 sfugge a un attentato dai contorni ancora oscuri: una potente carica di esplosivo viene piazzata e per fortuna scoperta sulla scogliera della villa dell’Addaura dove trascorre l’estate. Erano “menti raffinatissime” – così le chiamerà – quelle che avevano preparato il botto. In giro si dice che sia stato proprio lui a organizzare una messa in scena funzionale alla sua carriera.

Maldicenze e ostilità prendono corpo nel “palazzo dei veleni” e lo accompagneranno durante l’esperienza in Procura (la divide con Paolo Borsellino) che nel febbraio 1991 terminerà con il passaggio al ministero. “Ora viene il peggio”, dice dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso. Ed è un facile profeta: 57 giorni dopo Falcone toccherà a Borsellino: il copione era già noto.

[di Franco Nicastro – tratto da ANSA]