19 Dicembre 2024
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Don Robertson, Tutto quello che per poco non è successo, Nutrimenti Edizioni 2022, pag. 288, € 19,00, traduzione di Nicola Manuppelli

“Al mondo, ci sono cose più importanti da considerare che il dolore. Una è la grazia. O chiamatela decoro. O chiamatela amore”: è un incipit che stupisce ma indica due elementi portanti del romanzo di Don Robertson (Cleveland 1929-1989), il dolore e l’amore, strettamente legati tra loro.

Eppure il protagonista Morris Bird III si presenta con una forte carica vitale: ha diciassette anni, è un bravo giocatore di basket, ha una ragazza che frequenta la sua stessa classe. Ed è quasi Natale a Cleveland, nel 1952.

Vero è che ha perso la madre da pochi mesi e che il padre non scambia mai con lui più di dieci parole consecutive, limitandosi ad alzare qualche volta gli occhi dal giornale mentre i figli fanno colazione. La più piccola,  Sandra,  ha preso a gestire la famiglia con saggezza di adulta.

Morris ha l’età in cui ci si sente indistruttibili, e ama mettersi alla prova andando contro corrente pur di segnare un punto a proprio favore agli occhi di lei, Julie, che dopo la scuola va a impacchettare regali in un grande magazzino.

Morris fa il percorso verso la scuola insieme al suo vicino di casa, un ragazzo nero, ed è il tempo della segregazione razziale, quando il padre di Morris rifiuta categoricamente i nuovi vicini, che, secondo lui, sono andati a inquinare Hough Avenue con la loro pelle nera. Intanto gli Usa sono impegnati nella sanguinosa guerra di Corea ed un richiamo alle armi pende sopra la testa dei ragazzi. Fondamentalmente a Morris non dispiace H. Truman, ma “che cosa c’era di tanto coraggioso nell’ordinare a tante persone di farsi ammazzare?”

Il fatto è che Morris pensa molto, tanto che alla East High, la sua squadra di basket, “lo avevano accusato di essere una specie di cervello, e a quel punto tanto meglio sarebbe stato se lo avessero incriminato di avere la sifilide”.

E’ l’età dei forti turbamenti ormonali quando l’occhio del maschio scende rapido dentro ogni camicetta femminile appena sbottonata, su ogni gonna che alimenti l’immaginazione e l’autoerotismo. Predichi pure l’allenatore di basket contro la pratica di “gingillarsi”, Morris decide da solo, anche perché Julie, che gli ripete di amarlo, gli ferma le mani quando osano scivolare troppo.

Robertson ci porta dentro le giornate di Morris, in famiglia, a scuola, per le strade, in palestra, ma soprattutto ci guida dentro quel turbinio di riflessioni con cui il ragazzo cerca di spiegarsi la vita e ciò che gli ruota intorno. Parco nelle parole, riesce a mettere per scritto quel che gli preme da dentro, trovando in una insegnante la persona adatta a leggerlo nel profondo. E lei: “Hai riconosciuto il fatto che la vita può essere fonte di confusione, che il dolore e la bellezza arrivano in tale profusione e in una sequenza così disordinata che, uh, per usare un’immagine, ti gira la testa. Vuoi imporre uno schema, uno schema che definirebbe logicamente tutto ciò che ti circonda. Ma non esiste tale schema, ed è questo ciò di cui hai preso coscienza”.

Ci sono domande che attendono una risposta: perché la madre prima di chiudere gli occhi abbia gridato “porco” al padre. Arriva anche quella finalmente, con molto più di dieci parole, nell’ora della verità, quando Morris Bird II, il genitore, depone la corazza, si pone davanti al figlio con sincerità ed è davvero padre. Quando Morris barcollando gli cade in grembo e si lascia accarezzare.

Ci sono sogni che talora non si possono realizzare perché la vita gioca contro, e gioca pesante, come succede a Morris. E quando è la vita stessa che ti pone in mano la carta vincente, che tu finalmente la possa giocare, allora può capitare che vinca l’amore, quello vero, che non ha niente a che vedere col sesso, quello che implica rispetto, decoro, grazia. Perché talvolta la realizzazione di un desiderio – o forse di una ossessione – fa stare male gli altri. “E non è giusto far star male il tuo prossimo perché stai male tu”.

Una figura che non si dimentica, questo Morris Bird III, inquieto e saggio, riservato e generoso, aggressivo solo nelle idee, mai nei fatti; uno che sa amare anche se non lo ammetterà davanti a Julie, che riesce a dare luce a chiunque sia al suo fianco cercando la verità, che ha un così profondo senso etico che l’inconscio comanda le sue azioni.

Il romanzo ha un fluire costante di pensiero -in un’analisi di persone e  situazioni, in un intrecciarsi fitto di strade tanto che ti sembra di essere a Cleveland – che si alterna alla leggerezza dei dialoghi, in un climax ascendente che dissemina elementi di ansia, fino ad arrivare al culmine, quando Robertson si fa telecronista di un intero incontro di basket,  pagine e pagine, senza perderne un passaggio, perché Morris deve giocare la sua grande partita.

Poi, quando il lettore sente di essere diventato spettatore e segue col fiato sospeso i palleggi e i cesti di Morris, ad un tratto tutto prende a ruotare e il ragazzo si percepisce come se fosse il regista di se stesso, uno che si guarda dall’esterno.

Indimenticabile un padre che accarezza la schiena di suo figlio e piange, mentre i due si dicono “Noi…possiamo essere decorosi…”

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.