23 Dicembre 2024
Sun

Andrea Gibellini, Planetario e altre osservazioni, Marcos Y Marcos 2022, pp. 120

Il Planetario di Andrea Gibellini (Sassuolo 1965) è una ricerca continua di luce -all’interno di un Planetario si ha l’illusione del cielo stellato- in un tendere verso l’alto. Luce che vince sopra le mattine uggiose di nebbia, sugli acquitrini, che risplende sopra le colline, che si identifica con la poesia stessa, l’unica che dà senso e chiarìa ai giorni – “scrivo perché non voglio il buio”- che porta con sé immagini e memoria: “E’ come una danza la poesia/che riesco di tanto in tanto/ a fare con una musica/ non sempre solare”.
Questa raccolta è un inno alla Poesia, non indulge alla musicalità ma contiene la musica, insieme ad un fluire di acque e sussurri di vento che si percepiscono, lievi e continui.

Nel tendere alla luce la poesia ha il potere di cacciare l’inverno, quello che ammanta la natura e porta il gelo dentro: “la poesia che ti possiede caccia l’inverno”. La poesia può toccare e fuggire via se non la afferri, se non te ne lasci contagiare, perché: “ti sorprende proprio come un vento/e può andare via come la fuga imprevista/di una giovane sposa”. Il vento si sposa alla poesia, portandone la musica con sé, quasi a spargerne i semi: “la poesia e il suo canto/e il vento/che pettinava/le erbe rivolte al sole”. Il vento passa dai fienili, li fa vibrare “scossi come in una notte/sempre presente” e ne amplifica il suono perché arrivi lontano.
Ha un potere la poesia, quello di perpetuare “con l’inchiostro” le memorie, di dare la gioia di “poter essere, /la gioia di poter ricordare”, e di consolare nella solitudine: “E’ la solitudine che fa sentire/i libri come le fronde/di un albero alla luce del vento”.

Nell’inseguire la luce e nell’ascoltare la voce del vento/poesia, proseguiamo tra immagini di corsi d’acqua, di sassi di fiume, di foglie, di alberi dal lungo fusto, di foreste, di tenere erbe, di fieno tagliato, di terra, di neve, di fossili del mare che c’è stato, elementi che hanno già ispirato altri: le sculture dei maestri Campionesi, le loro raffinate miniature, sono un modello di perfezione, e Gibellini li sente vicini nella ricerca della bellezza: “Il bel fogliame impresso nei/marmi diventa tessuto fluente,/intreccio di eventi, di poetiche mani/a lavorare durante il precoce inverno/loro come noi stretti nel contatto/con il territorio,/con l’immaginazione”.

L’inverno è la stagione avara di luce che acquista un valore simbolico, come momento di ricerca in un tendere verso: “il sole entrava tra le/nuvole dell’inverno,/ho costruito la mia lampada,/la mia luce, per vedere meglio”.
Quando arriva l’inverno con le sue nevi, il poeta chiude ogni porta e finestra “per  erigere nella notte i miei palazzi fatati”: se il sole non c’è lo si può estrarre dal cuore, scendendo giù giù, scavando fino a “ritrovare brillanti minerali”, recuperando splendore e colore, come quello dei mosaici bizantini.
La primavera è il trionfo della luce/poesia, quando può fiorire “un verso che non vada/mai di traverso/come una composizione perfetta”, che sappia creare “disegni rapidi e infiniti” come quelli degli uccelli nel cielo.

La poesia è frutto di una operazione di scavo come quello che fanno le ruspe, non solo alla ricerca della parola unica e giusta, ma è uno scavo dentro se stessi e dentro la memoria, seguendo un proprio “editto” interiore, una propria legge morale “che mi facesse diventare più vero del vero/nel mio legittimo paesaggio,/nel mio io più intimo, più interno/come una Matilde di ferro e fuoco”.
Se la poesia nasce da uno scavo profondo, si recupera anche il passato con gli strati della storia portati alla luce dagli “specialisti”, con le tracce rimaste nei fossili, con la storia più recente che risplende nelle opere architettoniche degli Estensi: “Nella mattina solare davanti/al Palazzo Ducale ho ricordato/musiche vocali per sentire e gioire”.

La memoria è una conferma del proprio esistere ed essere stati, di un continuum impresso nella nostra carne, anche se “non sempre la memoria riconduce a verità,/ e non sempre a verità/riviste dopo anni”. Così ciò che la memoria trattiene si trasforma in dolore quando tutto appare cambiato e si fatica a ritrovare le tracce di un tempo. Allora il ritorno ai luoghi di cui non si riconoscono forme, colori, profumi, porta una gioia mutilata, intanto “girano, eccome,/ “fantasmi lungo le strade:/escono dal fango”.
Il tempo falcia le illusioni e la città è “rimasta invano/senza la verde e chiara iride della gioventù perduta”: un velo di nostalgia si distende sul  tempo lontano delle speranze mentre si accarezza un desiderio: “Ritrovare nelle acque/del fiume che scorre in me,/nel fiume che come un grembo di luce/porta il nome di Secchia,/estati lontane, vortici, rumore/di sottofondo, musica sulla pelle”, quando la natura appariva “vermiglia” e luminosa.

Oggi si deve accontentare che  “accanto a tante industrie” si trovi ancora “un angolo rimasto di natura”. Ora di quel suo fiume che fatica a riconoscere può salvare poco, lui, “educato da una natura severa”,  e quello che salva deve bastare: “Ho trasportato nel mio/al di qua una radice, un odore/di menta/…cosi ti/educo, mia memoria”.
Resta il dono di ricreare ciò che si è perduto con l’illusione del vero, come dentro un Planetario che regala l’illusione della volta celeste. Allora anche una casa può tornare ad esistere, nonostante tutto, perché non si sono perse le sue radici, perché “quella casa grande che è in me,/anche se demolita, /prende luce”.

 

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.