José Maria Eça de Queiróz, I Maia, Edizioni Settecolori 2023, pag.788, € 28,00. Prima edizione numerata di 1.000 copie. Traduzione di Enrico Mandillo
A fine ottocento un’antica famiglia aristocratica della Beira, i Maia, “si era ridota a due membri soltanto: il capofamiglia, Afonso da Maia, un vecchio, quasi un antenato, più longevo del secolo, e suo nipote Carlos, che studiava medicina a Coimbra”: Josė Maria Eça de Queiroz (1845-1900), giornalista, diplomatico, romanziere, che ha dominato la storia letteraria del Portogallo, ne segue le vicende attraverso il più giovane dei suoi componenti, Carlos. Il romanzo esce a Oporto nel 1888, “quando ancora i codici di comportamento della vecchia ed esangue aristocrazia portoghese cozzavano con quelli praticati dai ceti della nuova borghesia” Un periodo di passaggio, di cambiamenti sociali, che ha fatto avvicinare I Maia al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Fulcro della storia è il palazzo di famiglia a Lisbona, dove i Maia vanno ad abitare nel 1875, conosciuto come la casa del Ramalhete -il mazzolino- con riferimento allo stemma di famiglia che rappresenta un fascio di girasoli legato da un nastro. Il nonno Afonso da Maia in realtà ama la tranquillità dei suoi possedimenti a Santa Olảvia, data l’età, ma ha scelto Lisbona per il nipote: abituato a vacanze a Parigi e a Londra non avrebbe sopportato “i burroni del Douro”. Cresciuto dal nonno, Carlos non sa niente delle passioni che hanno travolto i suoi genitori, e il perché della loro scomparsa. Molti sono i personaggi che intrecciano la loro storia a quella di Carlos, frequentatori del Ramalhete e della sua ricca tavola, aristocratici titolati, nobiluomini prestati al governo della locale monarchia, che guardano alla Francia e all’Inghilterra come modelli di politica e di cultura e ne imitano malamente le tendenze. Lo sfarzo e lo stile di vita dell’aristocrazia di fine secolo sono resi in modo accurato, dettagliato, tanto da rivelare una vena di ironia sottile; il dialogare è fluido e accattivante, la bellezza del paesaggio si distende dovunque, con gli splendidi tramonti sul Tago che si apre verso l’oceano. Il tempo di questi aristocratici trascorre nelle conversazioni più o meno impegnate, in soggiorni nei luoghi ameni di villeggiatura, nelle cene e nelle feste, nei giochi di carte, nei teatri, e soprattutto nella ricerca continua di emozioni. Gli altri -le classi sociali più basse e quelle più umili – compaiono in ruoli di servizio alla persona e alla casa. Joäo da Ega, giovane esteta e cosmopolita -in cui l’autore si rispecchia tanto che alcuni episodi sono autobiografici- è l’amico con cui Carlos non ha segreti. Il giovane si laurea con grande soddisfazione del nonno e dà il via a progetti di ricerca e di lavoro, poi finisce per esercitare solo in rari casi, soprattutto quando si tratta di poter avvicinare una bella e giovane madre arrivata a Lisbona, Maria. Sembra che le mogli di conti e di baroni non abbiano altro da fare che cercarsi avventure galanti, con occhi che invitano maliziosi, mentre incedono con abiti sontuosi per i saloni dei palazzi, e anche Carlos non sfugge alle avventure più rischiose, alla gelosia delle nobildonne e di qualche rivale in amore. Ma con Maria è diverso. Con lei ha un’intesa profonda, come una fusione d’anime, e un profondo affetto lo lega alla piccola figlia di lei, Rosa. Maria Eduarda ha una storia difficile alle spalle, ha conosciuto miseria, abbandoni, degrado, poi è comparsa a Lisbona come moglie di un uomo potente, Castro Gomez, destando dovunque ammirazione per bellezza, raffinatezza, serietà. Ma chi è Maria Eduarda, che dice di essere portoghese di nascita? Lei conosce la verità sulle sue origini? Una storia, quella de I Maia, che coinvolge piano piano, prima trasportandoci nei salotti, nelle conversazioni, nelle esibizioni di potere e di ricchezza, poi trascinando il lettore – che ha intuito la verità – dentro la tragedia di un amore incestuoso, nella più assoluta innocenza di Carlos e Maria. A un decennio di distanza, con i drammi vissuti ormai alle spalle, Carlos ed Ega riconoscono i cambiamenti avvenuti nella società e nei costumi: la loro stagione ormai è tramontata. Osservano “i palazzotti decrepiti con le finestre rivolte nostalgicamente verso la foce del Tago, enormi stemmi sulle pareti screpolate, dove, tra la maldicenza, il bigottismo e il gioco, trascinava i suoi ultimi giorni, cachettica e retrograda, la vecchia Lisbona aristocratica”. In una Lisbona “tutta posticcia” si salva solo la genuinità e l’onestà di chi ha coltivato la poesia. Ora Carlos ha maturato una sua teoria sulla vita: “Non desiderare nulla e non avere paura di nulla. Non abbandonarsi mai alla speranza o allo sconforto, accettare tutto ciò che viene e che va con la tranquillità con cui si accolgono i mutamenti naturali, le giornate di pioggia e quelle di bel tempo”. Tuttavia persiste la vena ironica di José Maria Eça de Queiróz: mentre i due riconoscono che “non vale la pena sforzarsi, correre ansiosamente verso una meta”, si ricordano di avere un appuntamento. Passa un omnibus, corrono, e non sappiamo se riescono a salirci.
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