Riccardo Ferrazzi, Modus in rebus, Morellini Editore 2023, pp. 304
“Est modus in rebus. C’è una legge nella natura. Ci sono limiti oltre i quali non si può essere nel giusto”. Così scrive Riccardo Ferrazzi in un romanzo che si muove tra Madrid, Salamanca e Milano. Se questi limiti siano o no rispettati si capisce piano piano, mentre seguiamo la voce narrante, Vittorio, che ritorna a Salamanca dopo vent’anni di assenza, per cercare la verità: “Ho ascoltato troppe verità e ancora non so quale scegliere”.
Nutre la speranza di incontrare di nuovo l’unica donna che ha amato davvero, Maite, una donna dal colore indescrivibile degli occhi sempre sfuggenti, e di cancellare i dubbi che nutre anche su di lei.
Se appare lui, Vittorio, come protagonista, in realtà ci rendiamo conto che qualcuno ha condizionato e controllato la sua vita senza mollarlo mai, come un’ombra, una protagonista fantasma che attraversa il romanzo legando luoghi e tempi: “Non la vedi da vent’anni ma lei ti tiene sempre nel palmo della mano” gli ha detto una gitana al suo ritorno a Salamanca.
Altre donne incrociano il cammino di Vittorio: sono la stessa persona Maite, Bianca Sinclair e Alba Davalos?
La Salamanca che conosce Vittorio la prima volta è piena di fantasmi e di sangue, di tori infuriati e di morti nell’arena, una città che “tratta allo stesso modo misteri e cadaveri”, carica di intrighi in cui si è trovato invischiato, dove “c’è qualcuno che ammazza i preti, li maschera da toro e li espone sul sagrato della cattedrale”. Una città “che è tutta un’incoerenza”, dove si sono susseguiti due omicidi legati tra loro, presto archiviati, senza che sia venuta fuori una verità credibile. Il dubbio ha seguito Vittorio negli anni, tanto da giustificarne il ritorno a Salamanca.
Il suo tentativo di riorganizzarsi la vita a Milano è destinato a fallire, come se una forza avversa lottasse contro di lui, invischiato anche qui in due presunti omicidi. C’è qualcuno che gli scompiglia la vita: è stata Maite/Bianca/Alba? C’è una donna combattuta tra amore e spietatezza, che sa che “l’amore è una sfida, ogni sfida è un pericolo e ogni pericolo fa paura”. Ha amato un’assassina? Ne è stato un testimone scomodo?
Don Agustin, che nelle omelie predicava di “guardare in alto e cercare la luce”, non è riuscito a diradare le ombre della sua città. A Milano intrighi impensabili e violenti si nascondono nel settore dell’editoria.
Il romanzo solleva continue domande e dà parziali risposte, non è mai consolatorio: “Tutta la vita è un investimento del quale non intascheremo mai i profitti” dice Miguel Angel, che morirà affrontando un toro. “Ci attrezziamo come se dovessimo vivere in eterno, ma il tempo passa e impiomba le ali. No, Victor, i conti non tornano. La vita è un gioco dell’oca, un imbuto, una prigione. E perché dovremmo chiamarla vita? Chiamiamola truffa”.
Anche la meseta supera ogni immaginazione: “In Italia, pensai, i prati sono sempre verdi, tutto è a misura d’uomo e persino le nuvole hanno un’aria amica. Invece la meseta è immensa, sproporzionata, tragica. È una sconfinata vastità rossa di argilla, sassosa come il letto di un fiume, punteggiata di arbusti. Il cielo è così alto che non dà l’illusione di essere un tetto e guardare in su è come stare tra le quattro mura di una casa diroccata, scoperchiata, alzare gli occhi e pensare: oh Dio!”
Non esiste dunque modus in rebus, come il titolo farebbe sperare. Purtroppo continuiamo a rendercene conto ogni giorno.