Dopo Netanyahu: il re dei chutzpàh
Chutzpàh è una parola ebraica che racchiude in sé diversi concetti, non solo negativi, ma che viene spesso riferita ad un atteggiamento sfrontato, impudente. È un termine yiddish entrato a far parte del linguaggio comune. La prima menzione nelle fonti classiche ebraiche si trova nella Mishna, in Masechet Sota 9:15. La frase è: “Nel periodo messianico la chutzpàh prevarrà”. L’altro significato è quello della regalità senza corona. Infine, l’esempio più colorito, quello dell’uomo che uccide i propri genitori e al giudice chiede clemenza, perché orfano.
Se si passa alla politica di apostrofati chutzpàh ce ne sono tanti, ma a uno più di tutti calza a pennello, Benjamin Netanyahu. Bibi inequivocabilmente è, per la stampa, per i detrattori e gli avversari, per i fan o gli amici, il re dei chutzpàh. Grazie a questa naturale dote di sfacciataggine è stato capace di restare al centro del dibattito degli ultimi trent’anni della storia di Israele. Ha saputo rialzarsi da sconfitte brucianti. Ha ribaltato la società israeliana dalle fondamenta e modellato il Likud, il suo partito, a propria immagine. Ha traghettato la destra verso nuovi mari, per approdare infine al lato oscuro del nazionalismo populista, con la formazione del governo più a destra di sempre. Elevando al rango di ministri impresentabili razzisti.
Una cosa che non ha mai fatto e forse minimamente pensato è indicare il suo successore. Poco probabile che passi il testimone al figlio Yair, a cui manca il quid. Vantava delle pretese dinastiche Benny Begin, figlio dello storico leader Menachem, che invece si è fermato al palo. Ehud Olmert c’era riuscito ma è scivolato penalmente su una buccia di banana, eliminandosi da solo dalla corsa. È stata ad un passo dall’accantonarlo in soffitta Tzipi Livni, ma con una “magia” politica Netanyahu si è liberato di lei. In ordine sparso si sono rivoltati contro di lui interi apparati del partito e stretti consiglieri: Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zvi Hauser, Zeev Elkin, Moshe Ya’alon, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Quest’ultimo ha fatto tremare il sogno di onnipotenza di Bibi, l’illusione è durata poco e il governo Bennett-Lapid è evaporato al vento. E così ancora una volta è tornato alla guida del paese.
L’ultimo capitolo della saga di Netanyahu, tuttavia, ha palesato criticità di fondo e responsabilità. La partecipata protesta della piazza del movimento pro-democrazia, iniziata a gennaio pochi giorni dopo il suo insediamento a Balfour street, e gli eventi tragici del 7 ottobre, hanno evidenziato un leader non all’altezza della situazione. Incapace di ascoltare il dissenso di massa che montava giorno dopo giorno. Tardivo nell’assicurare la sicurezza ai propri cittadini. Troppi errori. Pagati impietosamente nei sondaggi, gradimento crollato ai minimi (28%). Ha perso consenso e soprattutto la fiducia della gente.
Adesso, a chiedere le sue dimissioni c’è una larga fetta di Israele, che va ben oltre i lettori di Haaretz e che è trasversale alla composita società israeliana. Chi ha velleità di cimentarsi alle prossime elezioni politiche, una volta finita la guerra, e aspirare al ruolo di comando è Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore, oggi responsabilmente membro del Gabinetto di guerra, è una concreta alternativa, che non dispiace a Biden. Dai banchi dell’opposizione invece il più accreditato è sicuramente Yair Lapid, anche lui molto stimato dai democratici a Washington. Se invece l’operazione per rimuovere Netanyahu dovesse palesarsi a conflitto in corso, la soluzione più plausibile è che avvenga attraverso un terremoto politico nel Likud. Sia Gantz che Lapid non hanno i numeri nell’attuale Knesset per formare una maggioranza. E senza l’appoggio del Likud anche il sostegno dell’amministrazione statunitense non è sufficiente.
Una scelta di continuità con Netanyahu sarebbe Yariv Levin, se non fosse che il suo nome è indissolubilmente legato alla contestata riforma della giustizia e inviso a tanti.
Chi ha le spalle larghe abbastanza per reggere il confronto con il padre padrone della destra è Nir Barkat.
L’ex sindaco di Gerusalemme è un imprenditore di successo, con elevata disponibilità economica: è il politico più ricco di Israele. Di poche parole, freddo come un iceberg, difficile da interpretare. Già in passato ha alzato la testa, prendendo apertamente le distanze da Netanyahu. In questo esecutivo è ministro di prima fascia, presiede l’Economia. Rispetto ad altri dirigenti del Likud non ha una corrente di riferimento, ed è, se vogliamo, avulso dal controllo della macchina (e delle tessere). Di voti, comunque, ne raccoglie parecchi.
È stato tra i primi, e pochi, nel governo a rilasciare interviste dopo il 7 ottobre. Puntando il dito contro l’Iran. A fare di lui un potenziale leader a largo spettro è la lunga esperienza da primo cittadino di Gerusalemme, dove ha saputo governare con tutti: dalla sinistra sionista alla destra religiosa. Se c’è un politico con le credenziali, adatto ad una fase di unità nazionale, sembra proprio essere lui. Prima però deve sfilare la poltrona a Bibi.
[di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi]