Trasferire la popolazione di Gaza
Scrivere oggi del conflitto tra Israele e Hamas è altamente rischioso. Due schieramenti contrapposti, forti dei loro pensieri unici, non lasciano spazio a nessun’altro ragionamento. Ma noi, forti della convinzione di non essere anti- (giudaici, ebraici, semiti, sionisti, israeliani), ci buttiamo nella mischia e proviamo a scrivere di temi che, nel dibattito qui in Italia, di quella terra non si sentono o quasi.
Cominciamo con un primo tema: l’idea di trasferire gli arabi. Da Gaza (e di questo, sia pure come tema minore, se ne parla), ma anche dalla Cisgiordania (e di questo non ne sappiamo niente), che sono messi ben in evidenza da due articoli recenti di Haaretz (a firma di Nettanel Slymovics il 17 novembre, e di Gideon Levy e Alex Levac il 18).
L’idea di espellere gli arabi in altri paesi era affermata un tempo da gruppi radicali di estrema destra, e quindi considerata un anatema dalla maggior parte degli israeliani. Ora, a un mese dal 7 ottobre, sta prendendo piede come soluzione ‘morale’ alla guerra.
Alcuni giorni fa Guy Lerer, un conduttore televisivo israeliano su X propone un quesito: «Perché milioni di rifugiati siriani sono andati in Turchia e milioni di ucraini sono andati in tutte le parti d’Europa – perché in ogni guerra c’è un fenomeno di rifugiati in fuga da un Paese, tranne che per la guerra nella Striscia di Gaza?».
Questa domanda non cade nel vuoto. Su Channel 12 News, il più seguito del paese, il deputato Ram Ben Barak del partito Yesh Atid ha affermato: «Se tutta Gaza è profughi, disperdiamoli in tutto il mondo. Ci sono 2,5 milioni di persone. Ogni Paese ne potrebbe accogliere 20.000 – 100 Paesi. È umano, è logico, sono comunque rifugiati. Meglio essere un rifugiato in Canada che un rifugiato a Gaza. Se il mondo vuole davvero risolvere questo problema, può farlo».
La disinvoltura con cui l’idea del ‘trasferimento’ è stata lanciata e non ha sollevato un polverone non è sfuggita a chi sostiene l’idea da decenni. Ha detto Michael Ben Ari, membro dell’ex partito di estrema destra razzista Kach: «le persone sono sedute nello studio televisivo più di sinistra del mondo e parlano con nonchalance di attuare un trasferimento di tutti gli abitanti della Striscia di Gaza! No, non è uno scherzo. È esattamente quello che stanno dicendo, e tutti nello studio, gli ultra-sinistri, hanno semplicemente annuito in segno di assenso… Il rabbino Kahane [fondatore di Kach, che proponeva la deportazione di tutti i palestinesi da Israele e dalla Cisgiordania, assassinato nel 1990] aveva ragione!».
Il mainstream israeliano è consapevole che il trasferimento è una chiara violazione del diritto internazionale, e che potrebbe segnare la fine del sostegno al Paese. Ma le principali organizzazioni di destra si sono ora inserite in questo discorso.
Appena dieci giorni dopo l’attacco di Hamas, il direttore del centro studi di statistica e difesa dell’organizzazione di destra Tikvah Fund e ricercatore all’Istituto Misgav per la sicurezza nazionale e la strategia sionista, ha pubblicato un documento: «L’unico modo possibile per stabilizzare il confine meridionale è agire per spingere la popolazione nella penisola del Sinai e creare un’iniziativa internazionale per assorbire gli sfollati dal Sinai nei Paesi stranieri. Nonostante l’opposizione prevista, Israele deve agire con determinazione per creare una situazione intollerabile a Gaza, che obbligherà gli altri Paesi a contribuire alla partenza della popolazione – e costringerà gli Stati Uniti a esercitare forti pressioni a tal fine».
L’Istituto Misgav ha pubblicato anche un altro documento, attribuito al membro del Likud Amir Weitmann, che suggerisce un piano dettagliato per l’insediamento in Egitto di tutti i due milioni di palestinesi di Gaza, che avrebbe un costo stimato tra i 5 e i 7 miliardi di dollari.
I due articoli sono stati pubblicati in un’edizione speciale di Hashiloach, il periodico ufficiale del Tikvah Fund. L’esempio per eccellenza della nuova concettualizzazione del trasferimento di popolazione è stato l’articolo del redattore Yoav Sorek intitolato «Necessario, morale e possibile: Non tornare a Gaza».
Sorek sottolinea tre principi: «1. Le uccisioni di massa che non fanno parte della sconfitta del nemico non sono morali. 2. Permettere una popolazione e un regime assassini nel nostro Paese, o nelle vicinanze del nostro confine, è una politica immorale. Non c’è diritto di esistenza in Israele per chi non accetta la nostra esistenza, per chi dal suo punto di vista il nostro sangue è acqua. 3. Trasferire la popolazione non combattente per continuare la propria vita in un luogo diverso, incoraggiando l’emigrazione e inibendo il ritorno a Gaza, è un atto morale».
La traiettoria retorica di Sorek parte dal rifiuto degli ‘appelli alla vendetta’ e dell’uccisione di civili, per poi dipingere il trasferimento di popolazione come una soluzione alternativa e umana alla guerra e al conflitto con i palestinesi. «Astenersi dall’uccisione sistematica di una popolazione civile è una comprensione morale a cui l’umanità è progredita», spiega Sorek, prima di dare il colpo di grazia: trasferire una popolazione è pratica diffusa nella risoluzione dei conflitti, ed è estranea al crimine noto come ‘pulizia etnica’.
Un termine che spicca nel suo testo è ‘chiarezza morale’, estratto dal lessico americano della presidenza Reagan. I funzionari di politica estera di quell’amministrazione usavano il concetto nelle critiche ai liberali sulla guerra contro il terrorismo, che parlavano di diritti umani e delle condizioni materiali che scatenano l’amarezza delle persone scontente e il loro ricorso al terrorismo. I conservatori rispondevano che il terrorismo produce una ‘chiarezza morale’ che esenta dal dover indagare sulle sue motivazioni, il terrorismo è un atto così moralmente ripugnante che quasi ogni reazione ad esso è giustificata: è una battaglia morale tra il bene e il male, tra i figli della luce e i figli delle tenebre.
Il Tikvah Fund non è solo in questo sforzo di fornire armi concettuali a una discussione sul futuro della Striscia di Gaza. Il sito web ebraico relocationgaza.com sta estendendo ulteriormente la definizione di ‘trasferimento’ nel linguaggio contemporaneo. Il sito ha uno stile turistico (una macchina fotografica, un blocco note e una matita, una guida turistica, mappe, una borsa a tracolla), ma la didascalia recita: «La soluzione umana: evacuazione di tutti gli abitanti di Gaza via Rafah». Il principio di fondo è l’espulsione dei palestinesi da Gaza come obbligo morale, così come il reinsediamento degli sfollati di Gush Katif (‘l’area del raccolto’), il blocco di 17 insediamenti israeliani dentro la Striscia che furono evacuati nel 2005 dal governo Sharon.
I piani per il trasferimento della popolazione vengono ripresi anche altrove. Nella terza settimana di guerra il quotidiano Calcalist ha pubblicato un documento del Ministero dell’Intelligence, guidato da Gila Gamliel (Likud), che raccomandava l’espulsione forzata degli abitanti della Striscia in Egitto nello spirito della posizione dell’Istituto Misgav. Inoltre, secondo un articolo pubblicato su Ynet, il governo israeliano ha già cercato di spingere l’Egitto ad accettare in modo permanente i rifugiati palestinesi – la contropartita sarebbe la cancellazione del debito del Paese nei confronti della Banca Mondiale.
Come dicevamo all’inizio, di questo sappiamo – poco, ma qualcosa – anche da noi. Ma non sappiamo niente della Cisgiordania. Gideon Levy e Alex Levac raccontano di come, sotto la copertura della guerra, secondo i dati di B’Tselemdal 7 ottobre 16 comunità di pastori sono state costrette a lasciare i loro accampamenti da coloni violenti che sfruttano la debolezza dei residenti –non protetti da nessuno, esercito, polizia israeliana o palestinese o qualsiasi altra agenzia. L’obiettivo è di ripulire dai residenti palestinesi nuove aree collinari a sud di Hebron. Un trasferimento di popolazione sotto l’egida della guerra, lo definiscono Levy e Levac.
La guerra d’Israele contro Hamas è sostenuta dalle nazioni occidentali e da ogni singola persona che abbia a cuore i diritti di una nazione e della sua popolazione ad esistere e vivere in pace. Gli ostaggi sono la priorità, ma al tempo stesso non lo sono. Oggi il Gabinetto di guerra si divide: una parte sostiene che Israele dovrebbe agire immediatamente per salvare chi può; l’altra insiste che l’esercito deve continuare a fare pressioni su Hamas con tutte le sue forze.
La politica si riaffaccia: il leader di Yesh Atid all’opposizione Yair Lapid cerca di raccogliere il sostegno dei deputati del Likud per votare la sfiducia a Netanyahu, mentre il suo partner d’opposizione Benny Gantz, che però sta nel governo di coalizione e che i sondaggi elettorali danno per favorito, preferisce andare a elezioni anticipate. Ma la realtà politica d’Israele nel novembre 2023 è questa, se anche un parlamentare di Yesh Atid – centrista e liberale – propone una soluzione che solo poche settimane fa era solo dell’estrema destra.