27 Dicembre 2024
Words

Cosa sta succedendo tra Iran e Israele

Da Israele

Parla alle mamme, perché i figli intendano. E sotto una pioggia battente, investito da un vento freddo, al momento di posare la sua pietruzza sulla tomba di Zvi Zamir — il leggendario capo del Mossad, morto martedì, l’uomo che dopo le Olimpiadi ’72 aveva inseguito e ucciso tutti i terroristi palestinesi —, è in quell’attimo che David Barnea cita Ben Gurion. «Sappia ogni mamma ebrea che ha affidato il destino dei suoi figli a comandanti degni di ciò», disse il fondatore d’Israele in un famoso e lontano discorso del 1963. «Sappia ogni mamma araba — ripete il capo dei servizi segreti israeliani —, se suo figlio ha partecipato direttamente o indirettamente alla strage del 7 ottobre, che tutti pagheranno con la vita». Messaggio chiarissimo: «Oggi siamo nel pieno d’una guerra. E il Mossad, oggi come 50 anni fa, deve far pagare un prezzo agli assassini, a chi li ha organizzati e a chi li ha mandati. Servirà tempo, come dopo la strage di Monaco, ma li raggiungeremo ovunque siano nel mondo».
Se non è una rivendicazione dei droni di Beirut, l’Hermes 900 e l’Heron che con tre razzi hanno incenerito il numero due di Hamas, poco ci manca. Israele non ha confermato, né negato. Ma Saleh al-Arouri è solo il primo della lista. Ieri mattina, la Cisgiordania e le botteghe di Gerusalemme Est sono rimaste sbarrate in segno di protesta per l’uccisione mirata: Al-Arouri era di Ramallah, era stato a lungo nelle prigioni israeliane e la sua casa era già stata demolita in ottobre, quando Netanyahu ne aveva chiesto l’eliminazione. Non ci sono solo le prefiche di Hamas, a piangere il loro fondatore («Israele è un pericolo per le nazioni, il sangue di Al-Arouri resterà un faro che illuminerà il cammino della nostra liberazione, diventando una maledizione per il nemico…»), ma pure nei Territori la perdita è sentita: secondo un think tank palestinese, il Centro di ricerca e monitoraggio della politica, sia a Gaza che in Cisgiordania la popolarità di Hamas è molto superiore a quella — che all’epoca era un po’ in calo — di prima del 7 ottobre. L’effetto della morte di Al-Arouri non si ferma qui, però. «C’è da chiedersi — dice un popolare editorialista israeliano, Nahum Barnea, mai tenero con Netanyahu — se si siano calcolati con esattezza i costi e i benefici di queste uccisioni mirate. Lo spero. È una scommessa sulla pelle di soldati e ostaggi. E una mazzata sui negoziati che americani e francesi stavano iniziando con gli Hezbollah in Libano». L’Egitto ieri ha «congelato» il suo ruolo di mediatore fra Israele e il movimento islamico: stop ai colloqui del Cairo (peraltro inutili, finora), alt a tutte le ipotesi avanzate per il rilascio degli ostaggi, la scarcerazione di centinaia di detenuti palestinesi, l’ingresso d’aiuti nella Striscia. Hamas e Jihad hanno lasciato il tavolo del Cairo. E l’inviato israeliano, che era arrivato solo lunedì, ha fatto valigie e check-out.

Da Iran

L’eccidio di Kerman ricorda la stagione di sangue che accompagnò i primi anni della teocrazia. Azioni destabilizzanti, con un bilancio di vittime alto e l’uso di ordigni potenti. Le bombe hanno il «vantaggio» di essere letali, non lasciano una firma chiara rispetto all’impiego di commandos, permettono di scegliere il momento e fuggire. È l’arma preferita degli strateghi della tensione.
Le prime reazioni della autorità chiamano in causa «i mercenari», elementi a disposizione dei molti nemici. Le accuse — generiche — riguardano terroristi eventualmente reclutati dagli Stati Uniti, da Israele o da qualche Paese del Golfo. Rispondono a sospetti, alla tesi costante di manovre straniere attraverso quinte colonne.
In estate i Guardiani della rivoluzione avrebbero sventato un attentato proprio allo stesso mausoleo arrestando estremisti collegati allo Stato ebraico. L’Iran si è servito dei terroristi in Medio Oriente in modo diretto oppure attraverso le fazioni amiche. Gli avversari lo hanno ripagato allo stesso modo. Prendendo di mira i suoi uomini, tra loro il generale Qassem Soleimani, i facilitatori come Imad Mughnyeh (responsabile dell’attività clandestine dell’Hezbollah), i quartieri sciiti di Beirut, devastati dalle autobomba negli anni ’80 attribuite a cellule sunnite ma in realtà opera di intelligence, compresa quella israeliana. La pista esterna può avere un fondamento in questa fase di scontro totale, però è anche utile al regime a fini interni e si presta a manipolazioni se qualcuno vuole sfruttare il momento. E c’è un effetto collaterale: le critiche al governo per la mancanza di protezione in occasione di appuntamenti importanti o attorno a personalità vittime di agguati.

La Repubblica islamica ha difronte uno schieramento di oppositori tenaci affrontati con la repressione più severa, gli arresti, le esecuzioni multiple. I separatisti del Baluchistan (in particolare Jaish al Adl), la minoranza araba dell’Ahvaz, i nazionalisti, i curdi, i Mujaheddin. Un fronte di resistenza protagonista di attacchi, con appoggi internazionali, in qualche caso presenze all’estero.
Alcune organizzazioni, a cominciare dai baluchi, hanno usato i kamikaze. Altre hanno preferito tattiche guerrigliere. Di solito hanno preso di mira target militari, dalle caserme alle parate, da uffici governativi alle pattuglie in zone remote.
Gli apparati di sicurezza hanno accostato i militanti ai sabotaggi del Mossad, ritenendo che lo spionaggio israeliano si sia servito degli oppositori per danneggiare fabbriche, siti strategici, installazioni. E in qualche caso per eseguire omicidi mirati. Qualche settimana fa Teheran ha annunciato di aver neutralizzato, con l’aiuto dei talebani, un gruppo che preparava gesti eclatanti, forse con l’uso di droni.

Lo scenario portato avanti dagli ayatollah è stato considerato da osservatori occidentali e anche i media israeliani hanno raccontato la scelta, qualche anno fa, dell’allora capo del Mossad, Meir Degan, di utilizzare individui assoldati localmente al fine di ostacolare il programma bellico dell’Iran. I soliti colpevoli raccontano solo una parte, servono prove per accostarli con certezza al massacro. La storia iraniana è ancora piena di fatti oscuri, con eliminazioni e faide.
L’Iran ha avuto ed ha un contendente pericoloso: lo Stato Islamico. I seguaci del Califfo, dal 2016, sono stati protagonisti di raid affidati ad affiliati pronti a «missioni sacrificali» nel quadro di una lotta politica e religiosa.
Tra i loro target luoghi di culto — il mausoleo dell’imam Khomeini e il santuario di Shiraz —, il parlamento, reparti dei pasdaran. Inoltre, la polizia avrebbe stoppato piani che prevedevano attentati a ricorrenze della fede sciita.
L’impiego del doppio «botto», con la seconda carica tra i soccorritori richiama lo stragismo iracheno (e non solo quello). Da tempo gli esperti mettono in guardia su sorprese dei mujaheddin del Califfato basati tra Pakistan e Afghanistan: il movimento — affermano — avrebbe deciso di agire al di fuori del proprio territorio. Di solito gli uomini del Califfato, però, rivendicano per dimostrare la loro forza.

[di Fabrizio Battistini e Guido Olimpio – tratto da Il Corriere della Sera]