24 Novembre 2024
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Giuseppe Berto, Elogio della vanità, Edizioni Settecolori 2023, pag. 80

Porta la data Roma, aprile-maggio 1965, il dattiloscritto che Giuseppe Berto (1914-1978) inviò allora alla casa editrice Rizzoli, ricevendone gli apprezzamenti in una lettera arrivata a giugno, ma venendo a sapere in una successiva lettera che il dattiloscritto era andato perduto. “La copia ritrovata nel fondo Vigorelli (giugno 2006) è stata per me una grande sorpresa”, – queste le parole della moglie Manuela – Giancarlo Vigorelli avrebbe dovuto scrivere la prefazione, per Elogio della Vanità, chissà per quale evento, nell’estate 1965 neanche lui trovò più il dattiloscritto”.

Analizzando la vanitas vanitatum alla luce delle teorie psicanalitiche, Berto la smembra in  tre aspetti, vale a dire il narcisismo, l’esibizionismo e la vanità spicciola, la fatuità, sottolineando che i primi due aspetti sono presenti in misura più o meno grandi nell’animo umano, e che senza quell’esibizionismo, presente in tutti gli uomini che definiamo normali,  non vi sarebbe “alcun raggiungimento in alcun campo, non nelle industrie e nelle arti e nei commerci, non nella carriera politica o scientifica o ecclesiastica, non nelle pompe mondane o in quelle funebri, tutte cose vane sia ben chiaro – secondo l’Ecclesiaste – che tuttavia formano l’ossatura della convivenza umana”.

Sul narcisismo chiarisce che non esiste un sentimento che non sia ambivalente, che non c’è amore che non comporti anche odio, per cui è possibile che Narciso stesso, dopo essersi a lungo rimirato nella fonte, “sia arrivato a detestarsi insopportabilmente” fino a buttarcisi dentro, e ricorda che le pulsioni “tendono per lo più a mascherarsi nel proprio contrario. Sempre sul narcisismo recupera Leopardi che si lamentava dei sette anni di studio matto e disperatissimo che gli avevano reso “l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola cui guardino i più”.

A proposito dell’esibizionismo, ne ricorda la funzione stimolante e attivante, perché senza un pizzico di quello, le migliori doti, come forza, bellezza, sensibilità e intelligenza rischierebbero di non servire a nulla se questa energia provvidenziale non le rendesse produttive. Un giusto orgoglio e consapevolezza di sé ha spinto Orazio a dire “Ho innalzato un monumento più eterno del bronzo”. Tuttavia la vanità può diventare così avida di lodi e di onori da non curarsi affatto della moralità delle azioni, perché “il parere senza essere gl’importa più che non l’essere senza parere”.

Berto sottolinea il pericolo insito in questa pulsione, cioè la possibile mancanza di senso morale che porta a un esibizionismo sproporzionato, per cui esiste un alto numero di coloro che “s’intestardiscono a fare cose che non riescono a fare a scapito di altre cose che invece potrebbero fare benissimo”, e nel mirino ci sono poeti, scrittori, pittori, registi.

Ma le frecce di Berto vogliono colpire altrove: di “esibizionisti extra proporzionali” se ne trovano nella vita pubblica, purtroppo, infatti “avviene che la vita pubblica attiri moltissima gente solo audace e furba, e in verità i progressi nella carriera politica sono assai frequentemente dovuti più all’apparenza che alla sostanza”, e succede che chi ha fatto bei discorsi elettorali carichi di promesse non sappia poi “legiferare e amministrare un popolo con equità”, costoro “fanno le loro esibizioni, ma le opere non seguono”. Addirittura il terrore della propria incapacità, quello di perdere l’opinione favorevole creata intorno, “porta a strafare sempre e dovunque in modo da stordire se stesso ma soprattutto gli altri”.

Se la vanità contiene il desiderio di sopravvivere a noi stessi, potrebbe assumere una importanza maggiore se fosse semplicemente “desiderio di vivere in questo mondo e di viverci col maggior numero di soddisfazioni possibili”; purtroppo “da quando è entrata nella testa della gente l’idea che a far parlare di sé e a farsi conoscere per le buone qualità che si hanno e soprattutto per quelle che non si hanno c’è da guadagnare parecchio, ognuno giustamente si dà da fare per crearsi una fama”, anche se non corrisponde ai suoi meriti.

Lucido, anche ironico, profondamente consapevole degli aspetti della umana psiche e dei vizi della società, Berto è fortemente critico in questo breve saggio che, scritto nel 1965, scomparso chissà per quale misteriosa ragione che potrebbe suscitare dubbi imbarazzanti, calza perfettamente alla società di oggi a conferma del ben noto detto che “per fortuna la verità, prima o poi, viene a galla”.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.