22 Dicembre 2024
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Rachel Aviv, Stranieri a noi stessi, Iperborea 2023, pag. 288, traduzione di Claudia Durastanti.

 

Scrittrice e giornalista statunitense, Rachel Aviv si occupa, tra l’altro, di medicina, istruzione e giustizia: Stranieri a noi stessi è un percorso nel mondo della malattia mentale attraverso la storia di cinque personaggi, Ray, Bapu, Naomi, Laura, Hava. Questa attenzione trova le motivazioni nell’infanzia stessa della scrittrice, che a sei anni ha vissuto una fase di anoressia, abbastanza insolita a quell’età, comunque risolta in tempo prima che potesse segnarne la vita: il desiderio di essere come una amica che  ammira sta alla base del suo rifiuto del cibo, l’ospedalizzazione conseguente la mette a contatto con bambine che hanno l’ossessione delle misure e del peso, che si sentono in colpa se ingeriscono qualcosa. La promessa di poter rivedere i genitori se ricomincia a mangiare – in un periodo di crisi familiare, di separazione dei suoi -la porta piano piano a interrompere il digiuno e a riprendere peso.

Grazie alle interviste e alla conoscenza delle persone, la Aviv mette a confronto le teorie sulle metodologie di cura, a cominciare dagli anni ’70 del secolo scorso, quando il procedimento psicanalitico, l’uso dell’elettroshock e di misure di contenzione si vedono affiancati e piano piano sostituiti dalle terapie farmacologiche. Ray si era affidato ad uno dei più prestigiosi centri per la cura mentale che non ricorreva ai medicinali: era un medico lui stesso, che aveva creato un importante centro per la dialisi, ma aveva fatto anche scelte sbagliate che ne avevano decretato il progressivo declino, tutto questo in parallelo con sua ossessione di riprendere il controllo delle energie e della mente, insieme alla sua attività. Dopo aver nutrito grandi aspettative nella psicoanalisi, deluso dai risultati, aggrappato ad una versione idealizzata di sé, passa alle terapie farmacologiche, sicuro di poter eliminare il suo “squilibrio chimico” e denuncia chi non è stato in grado di farlo stare meglio. Che cosa era alla base della depressione cronica di Ray che non ha mai saputo guardarsi dentro? Forse addirittura una professione a cui era stato indirizzato, ma non scelta da lui? Forse era stato privato del modello paterno.

Bapu ci porta in India, a partire dagli anni ’60. Zoppa per pregressa poliomielite ma di famiglia benestante, non aveva faticato a trovare marito, ma si era sempre sentita considerata una nullità in famiglia: “Mio marito mi considera un nemico se non ottiene il mio corpo o i miei soldi”. In una cultura “per la quale il misticismo è spesso essenziale nella vita delle persone” Bapu si rifugia nella spiritualità, dice di comunicare direttamente con Krishna, non si adegua al ruolo e ai compiti di una moglie, scrive poesie e memorie, fugge ripetutamente di casa pur con la nostalgia dei suoi due figli, vive come una mendicante, subisce dei ricoveri ospedalieri. “Bapu si riferisce a se stessa come una pazza o una folle nei suoi diari, ma non sempre con disperazione […] Il suo mondo interiore – il suo insight- era arrivato ad apparirle più concreto della realtà a cui era legata la sua famiglia, che non aveva accettato e capito la sua devozione”. Nel racconto delle altre storie, portate avanti con profonda umanità, la Aviv, con l’apporto di medici, psicologi, scienziati, arriva a riconoscere che la depressione in tutte le sue forme non dipende solo da uno squilibrio chimico, ma che la malattia mentale è causata da una interrelazione tra “fattori biologici, genetici, psicologici e ambientali”. Talora la sfera sociale incide pesantemente, soprattutto quando non ci si sente all’altezza dei livelli che gli altri si aspettano, o quando si hanno eccessive aspettative da noi stessi. “voglio essere qualcuno migliore di me”.

Oggettiva e realistica anche nel parlare di sé, la Aviv accetta tuttavia, per avere sperimentato lo stesso dolore, la descrizione della depressione di Laura come “dolore senza senso. Così informe e nebuloso, Sfugge a ogni tentativo di definirlo a parole”. Scrivere della propria malattia risulta di grande utilità. “Lasciami spiegare una cosa su di me” scrissi sul diario a otto anni. “Avevo una malattia chiamata anoressia “.

Anche i protagonisti di queste storie hanno sentito il bisogno di scrivere della loro malattia, per quanto si rendessero conto che il linguaggio a disposizione non era del tutto adatto. Hanno descritto le loro sofferenze psicologiche con grande consapevolezza di sé, ma avevano anche bisogno di altre persone che confermassero che ciò che sentivano era reale”.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.