Moody’s declassa Israele
Mentre aspettiamo l’attacco israeliano a Rafah e il possibile accordo e la tregua entro il 10 marzo, data d’inizio del Ramadan, c’è una notizia che in Italia non ha avuto lo spazio che avrebbe dovuto.
La settimana scorsa Moody’s ha annunciato l’abbassamento del rating di Israele. con previsione per il futuro (outlook) “negativa”. È una decisione eclatante. È la prima volta dal 1998, da quando il paese ha iniziato ad essere valutato dalle agenzie internazionali.
I rating d’Israele sono sempre stati pieni di elogi per la forza economica del paese, la sua eccezionale dinamicità, la popolazione giovane e in crescita, il successo nel ridurre il debito pubblico nel corso degli anni. Ma adesso Moody’s dà un giudizio sulla vulnerabilità del paese a un “rischio di evento”, compresi i rischi politici interni o geopolitici, e sul futuro. Secondo l’agenzia, non è garantita una soluzione sostenibile per il conflitto di Israele con Hamas, e la sicurezza della popolazione israeliana è meno consolidata di quanto si pensasse prima dell’attacco di Hamas: “… non c’è alcun accordo su un piano a più lungo termine che ripristini completamente e infine rafforzi la sicurezza per Israele”, scrive Moody’s nel suo rapporto.
Alcuni numeri ci aiutano a comprendere. A fine gennaio il deficit negli ultimi 12 mesi è balzato al 4,8% del PIL, e si stima che alla fine dell’anno raggiungerà il 6,6%. Dopo lo scoppio della guerra lo spread tra il tasso d’interesse delle obbligazioni israeliane a 10 anni e quelle statunitensi è allargato a decine di punti base. Le stime fiscali, sempre di Moody’s, sono un aumento a lungo termine delle spese governative, pari ad almeno l’1,4% del PIL, forse più vicino al 2% se il conflitto continuerà o si intensificherà oltre le attuali aspettative. Le spese per la difesa in futuro sono sconosciute, ma si stima che cresceranno dello 0,5% del PIL in ciascuno dei prossimi anni. Per contrastare queste difficoltà, la Knesset ha votato un bilancio rivisto con aumento dell’IVA dal 17% al 18% dall’anno prossimo.
È presto per determinare le conseguenze finanziarie della riduzione del rating. Moody’s è una delle tre principali agenzie di rating del credito sovrano, e solo quando le altre due, Standard & Poor’s e Fitch, avranno emesso le loro valutazioni sarà più chiaro se sarà davvero cambiata la visione complessiva del paese, e se i consueti punti di forza d’Israele (la crescita, l’alta tecnologia, la cyber-tecnologia, ecc.) saranno stati messi in secondo piano rispetto ai rischi per la sicurezza. Anche se le possibili conseguenza di un rating ribassato sono facilmente individuabili: aumento dei tassi d’interesse e quindi più soldi per ripagare il finanziamento del debito pubblico e meno per sanità, istruzione, welfare e investimenti; aumento dei mutui, degli scoperti di conto corrente, possibile svalutazione dello sheckel, inflazione, tenore di vita più basso.
Ma intanto, dopo che il rating è sempre stato positivo nonostante crisi economiche e sfide difficili per la sicurezza – si pensi alla seconda “Intifada” o alla seconda guerra del Libano – è un colpo all’immagine internazionale d’Israele, che adesso condivide il suo nuovo rating con paesi come l’Islanda, la Polonia, la Lituania, Malta, la Slovacchia e le Bermuda. E un rapporto così grave è un colpo alla fiducia nel governo attuale, ovviamente nel Primo Ministro Benjamin Netanyahu e nel Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.
Netanyahu contrattacca, e risponde con parole semplici che suonano vere: si sta combattendo una guerra, la guerra è un’impresa costosa che mina la stabilità e aumenta le spese e i debiti, più la guerra si intensifica e si diffonde più il ratingsi abbassa: “l’economia d’Israele è forte. La riduzione del rating non è legata all’economia, tutto deriva dal fatto che siamo in guerra. Il rating tornerà non appena avremo vinto la guerra, e lo faremo”, ha dichiarato.
Semplice e ovvio, sembra vero. Ma il quadro è un altro. Il documento più importante per le agenzie di rating è il bilancio statale, e Moody’s è preoccupata dal rapporto debito/PIL che ha ricominciato a crescere. Questo è il risultato del bilancio 2024 del governo di Netanyahu e Smotrich, che ha creato un deficit ampio e pericoloso – il già citato 4,8% che raggiungerà il 6,6% a fine anno – perché convoglia ingenti somme verso i settori ortodossi e gli insediamenti, e taglia invece riforme e investimenti nelle infrastrutture, necessari per la crescita.
Moody’s avverte di un orizzonte tragico per Israele. Non si limita alla situazione economica: rileva l’assenza di una soluzione al conflitto con i palestinesi, i rischi di una guerra con Hezbollah nel nord, il fatto che non esiste ancora un piano per il dopoguerra a Gaza, l’instabilità politica. Accenna al problema demografico derivante dalla crescente popolazione ultraortodossa, che non lavora e non studia materie fondamentali come la matematica e l’inglese, incidendo così sulla produttività e sulla produzione.
Di questo parla un articolo della giornalista Noa Landau su Haaretz (“Israel’s Downgraded Credit Rating Exposes Netanyahu’s Hollow Vow of ‘Victory’ in Gaza”, 11 febbraio), secondo la quale nell’azione del governo non esiste una soluzione a lungo termine che ripristini la calma e la sicurezza dopo un colpo di tali proporzioni, non ci sia qualsiasi visione che non sia guerra perenne.
Vincere e vinceremo, questa è la formula, anche se non sappiamo cosa questo significhi. “Mi chiedono se vivremo per sempre di spada: la mia risposta è sì”, disse Netanyahu alcuni anni fa in una discussione al parlamento, e questa è la sua sola soluzione per il paese, conclude Noa Landau. Il risultato è ora il primo declassamento del rating di Israele.