22 Dicembre 2024
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Michel Vieuchange, Smara. Taccuini di viaggio, Edizioni Settecolori 2024, pag. 264, traduzione di Leopoldo Carra. Edizione numerata.

 

Oggi la città di Smara, unico insediamento nel Sahara Occidentale, ha diverse decine di migliaia di abitanti, è sotto il controllo del Marocco dal 1975, nonostante le rivendicazioni di autodeterminazione da parte del Fronte Polisario. Fondata nel 1902 da Maa el- Ainin, capo spirituale che ne fece un luogo di insegnamento religioso, un punto di riferimento per i nomadi, dove si “praticavano esorcismi e si curava”, quando vi giunse il francese Michel Vieuchange, il 1° novembre 1930, offrì la vista di “una cupola sventrata, un ammasso di pietre in mezzo al deserto”.

Michel, amante dei classici, formato culturalmente a Parigi, era rimasto affascinato dal deserto durante il servizio militare in Marocco, da allora si pose l’obiettivo romantico di raggiungere Smara: “meglio essere in cammino verso una meta ignota, mettere alla prova la forza del proprio pensiero, del proprio corpo, la violenza del proprio desiderio, non cercare l’assoluto, ma semplicemente la vita”. Pur consapevoli dei rischi, i due  fratelli, Jan e Michel, figli della borghesia di Nevers, condivisero il progetto: Michel parte con una carovana che comprende tre uomini e due donne, tutti berberi, camuffato da femmina per non farsi individuare: “Se fiutassero in me un roumi, in più di mille ci darebbero la caccia nel Sahara”. Jan, ventiquattro anni, due meno del fratello, è un medico, e rimane nelle retrovie per intervenire in caso di ferita o di sequestro; Michel sarebbe stato il primo europeo ad arrivare a Smara, e nel viaggio “oltre l’Anti Atlante e il Draa, nel Rio de Oro, trecento chilometri all’interno del Sahara Occidentale”, poteva essere una facile preda di tribù nomadi e in continua lotta: “Fatto prigioniero, Michel sarebbe in grado di avvertirmi e io mi occuperei del riscatto. Porterà con sé due orologi, due bussole, due macchine fotografiche 6,5 x11[…] un po’ di medicine: ne preparo alcune contro le piaghe, la dissenteria, la malaria, i morsi di serpente”. Questo  scrive Jan nella prefazione ai diari del 1932, che compare anche in questa edizione.

Un viaggio surreale, a piedi o a dorso di cammello, avanzando con le babbucce, tra pietrame, rocce, pietre affilate, rovi, secco, col sole che infuoca i giorni e nel freddo delle notti, la luna unica luce, totalmente nelle mani delle sue guide, in balia dei loro capricci, delle continue richieste di ulteriore denaro, dei possibili tradimenti. Nascosto e accucciato in una cesta per lunghe ore per attraversare le zone più pericolose, assalito dai pidocchi e da mosche a migliaia, con le piaghe ai piedi, a dissetarsi con acqua maleodorante -“bevo quest’acqua un po’ scipita, che anzi sa vagamente di melma” -, a mangiare focacce d’orzo cotte tra le pietre, mais pestato, carne di capra talora maleodorante, datteri verdi, prendendo il cibo nelle ciotole dove le donne si sono lavate le mani, e a bere tè.

Il viaggio si complica, sono costretti a percorrere due volte uno stesso lungo tratto, si fanno deviazioni per evitare i predoni, le soste sono lunghe, le attese delle partenze diventano sfibranti, il tempo si dilata nella indifferenza delle guide, il malessere fisico aumenta, rimane la volontà di raggiungere la meta ma il corpo è messo a dura prova e andare avanti richiede uno sforzo enorme: “In questa penosa attesa Smara diventa per me una cosa arida. Io stesso mi prosciugo tutt’intero, per così dire; la testa mi si raggrinzisce intorno a quell’unica volontà che sento in me, severa, irrevocabile: farla finita, raggiungere la mia meta. E nemmeno tale idea mi dà gioia […] Sono un po’ come il giocatore che perde e si ostina”. Finalmente vedrà Smara: “un po’ oltre, la città appare tutta intera: le due casbe, la moschea, le case diroccate e, unica macchia di verde, a destra, le palme lungo lo oued”. Ma potrà restare tra le rovine solo tre ore, perché circola voce tra le tribù nomadi che un europeo, un roumi, viaggia con una carovana, e Samara è proibita agli stranieri.

Il diario che lui scrive ad ogni sosta ci porta sui suoi passi, fa ascoltare il vento, fa vedere il colore delle albe e dei tramonti, i cieli stellati e le brume, le distese infinite di ciottoli e sabbia, le conche scavate dai fiumi torride o freschissime dove i cammelli brucano un po’ di vegetazione, le montagne di nuda roccia di tutte le forme e colori. Fa condividere le sue privazioni, i suoi attacchi di febbre – con l’occhio alle medicine che scarseggiano sempre più – le attese, le paure; mentre ne riconosciamo la pazienza alimentata dal perdurare dell’illusione, percepiamo tuttavia la sofferenza, la consapevolezza del suo stato precario ed anche la rassegnazione, nelle frasi descrittive, informative, che si fanno sempre più brevi, asciutte, senza  indulgere al lamento.

Michel riuscì a fare il viaggio di ritorno, ma Smara gli aveva ormai rubato la vita: morì in una misera stanza di ospedale ad Agadir il 30 Novembre, dopo due mesi e mezzo dall’inizio della sua avventura. I diari, che nella sua intenzione non dovevano essere pubblicati ma rimanere di riferimento per un libro che avrebbe scritto, furono pubblicati nel 1932 da suo fratello Jan, legato al suo ricordo per tutta la vita.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.