19 Dicembre 2024
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Francesco Macciò, L’Universo in periferia. S-Oggetti sparsi intorno alla Poesia, Moretti e Vitali, Bergamo 2023

Il testo di Macciò mi ha costretto a fare i conti con due ricordi, con due episodi della mia formazione: una frase di Giorgio Caproni e una considerazione di Francesco Orlando sulla poesia e sul poeta. “Il poeta è un minatore, è poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerías del alma. E lì attingere quei nodi di luce che sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza”. Così dice il lirico della congelata sofferenza, del fiume dionisiaco sotterraneo che compare a tratti roventi dalla crosta rocciosa dei suoi scolpiti versi. Lui che sa che il compito del poeta, e del musicista, è quello di parlare anche a nome di tutti i diseredati della parola, di quelli che sentono ma non possono dire, gli “uomini infami” di cui tratta Michel Foucault, i senza voce, quelli che si esprimono attraverso le parole dei poeti; una affermazione del professore Francesco Orlando che, parlando delle ragioni che spingono gli uomini verso la letteratura, la musica, sosteneva che non si spiega come non si spiega il perché si respira.

In effetti il testo di Macciò, complesso, per geometria e per vocazione, mette assieme le due proiezioni verso il sapere e il suo apice musicale che è la poesia che, poi, implica la verticalità intuita come evasione conoscitiva e l’orizzontalità come adesione allo spazio al quale apparteniamo, al territorio storico. Insomma Caproni e Orlando si sono pronunciati su un aspetto che è centrale nel libro di Macciò, quello delle “stirpi canore”, dei luoghi dove la poesia nasce per divenire fiume, per “ruscellare” nella mente degli uomini. Nel testo, addirittura si fa la storia delle suggestioni, delle “voci” che producono un sistema linguistico che è fatto di musicalità dei lemmi, che si feconda attraverso la presenza di termini poliedrici per molteplicità di significati, di parole ponte tra il misurabile e l’incommensurabile, tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. La vibrazione lirica che implica un mosaico di espressioni che nascono dall’ombra delle idee sulle cose, che testimoniano l’improvviso manifestarsi di un valore alto della vita nella realtà nella quale sentiamo la nostra finitezza.

Del resto il denominatore comune dei poeti richiamati da Macciò, accanto alla volontà di non infrangere l’armonia e la bellezza, è la consapevolezza che il territorio in cui la poesia si muove implica il racconto dell’inesprimibile, il passaggio dalla sublimazione dell’esistere, il nascere della musica dalla parola assoluta. I tre spartiti di Dante, il silenzio cosmico, siderale, argenteo lunare. raccontato da Leopardi, i silenzi scolpiti nei materiali di cui è fatto il mondo, affidati ai paradossi ai frammenti lessicali, a parole spezzate, contorte, soffocate dalla dittatura del prosaico esistenziale dello spartito poetico di Caproni, del suo assurdo.

Aggiungo il notevole e fondamentale inserimento del “canto” goliardico In taberna, in quanto fondamento di una poesia che nasce dalle “forme” della vita, dal dionisiaco, dalla ricerca della evasione impossibile per raccontare tutte le disperazioni esistenziali tutte legate alla paura prima, quella della morte, quella della fine dell’innominabile, blasfemo modello che l’uomo si dà senza confessarlo, quello di essere immortale, di essere Dio. In Taberna, è il trionfo della poesia come ricerca di una ragione, della Ragione che giustifichi moralmente il nostro esistere.

Il testo di Macciò è prezioso perché, ponendosi in difesa di una Poesia insidiata, perseguitata, nemica del rumore e del ritmo di ciò che è diventata la nostra vita, racconta la storia della poesia e ci dona un saggio critico che è, come genialmente dice subito, nel suo incipit, Marco Ercolani, “un polifonico strumento di osservazione e di indagine sull’atto poetico, che ne reinterpreta le radici nel passato e nel presente”. Del resto, come dice Proust “Il mondo […] non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale”.