19 Dicembre 2024
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Un accordo buono solo per Hamas

Oggi 7 maggio, un dirigente di Hamas definisce gli “accordi del Cairo” come l’ultima possibilità per Israele di recuperare i proprio ostaggi. Ma questi ostaggi israeliani in mano ad Hamas, in quello che resta della striscia di Gaza, nessuno sa se sono vivi o morti.
Infatti, sempre oggi 7 maggio, intorno alle ore 4 del pomeriggio, il portavoce delle brigate Al-Qassam, Abu Ubaida, ha annunciato la morte di un’altro ostaggio, la settantenne Judy Feinstein, attribuendone la colpa all’esercito israeliano: un mese fa (sic!) Idf aveva bombardato un tunnel dove era detenuta la donna israeliana, poi vista la distruzione degli ospedali di Gaza la donna non ha potuto ricevere le cure adeguate ed è morta, sembra in un altro raid (ma non è chiaro).
Basterebbe che Hamas rilasciasse immediatamente tutti gli ostaggi presi il 7 ottobre e la guerra finirebbe. Ma questa guerra infinita è la ragion d’essere dei terroristi arabi (e forse di Netanyahu) che ieri hanno parlato sul presunto accordo di cessate il fuoco, tramite il portavoce del ministero iraniano, Nasser Kanani che ha detto che Hamas avrebbe accolto il piano di Qatar ed Egitto: “L’Iran sostiene il piano che è stato presentato per la realizzazione dei diritti del popolo palestinese, che include la fine immediata e permanente degli attacchi dei sionisti, la rimozione del crudele blocco su Gaza, il rilascio dei prigionieri palestinesi e il ritiro, completo e senza condizioni, delle forze di occupazione israeliane da Gaza, come anche la ricostruzione della Striscia”. Questo l’accordo (fonte ANSA) che secondo l’Iran dovrebbe essere accettato dagli israeliani. Ma non si vede in questo accordo alcun vantaggio per Israele e per gli ostaggi…

Vediamo dunque in quale contesto nasce questa proposta. Quali sono i precedenti e i retroscena, nell’articolo di Francesca Borri di Repubblica.

L’esercito israeliano annuncia l’inizio dell’evacuazione di Rafah, ma dietro le quinte si continua a trattare. E non è detto che Hamas non decida di accettare in un’intesa nell’ultima finestra disponibile. Dai mediatori israeliani filtra che in caso di tregua, l’Idf eviterà Rafah. O meglio. Sostituirà l’attacco su larga scala con raid e operazioni mirate. Per Netanyahu, ha senso. L’obiettivo di eliminare Sinwar rimane: abbassata la guardia, sarà più semplice. Ma per Hamas che senso ha? Cosa è cambiato? Ovviamente, è cambiato che i 129 ostaggi ancora a Gaza ormai sono in larga parte morti. E più si va avanti, più Hamas perde la sua sola merce di scambio.

Ma a fare la differenza è stato altro: è stato Erdogan. Che si è inserito in gioco appena si è inserito in gioco l’Iran. Con quella notte di missili e droni. Su Hamas, Erdogan ha molta più influenza del Qatar, perché non è un alleato: è un amico. Un amico di lunga data di Ismail Haniyeh, e di mezzo Politburo, con cui condivide la matrice dei Fratelli Musulmani. E secondo Erdogan, o la guerra si ferma, o la vittoria di Hamas si tramuterà in sconfitta. Perché nel mondo arabo, per ora il 7 Ottobre, nonostante tutto, è considerato un successo. Ha restituito centralità alla questione palestinese, si dice, ha rivelato la vulnerabilità di Israele, ha infiammato l’opinione pubblica, con cortei ovunque, ha spinto la Corte Internazionale di Giustizia a intervenire, e forse anche la Corte Penale: e comunque andrà, si avrà la fine del blocco di Gaza, e un governo unico con la West Bank. Conviene fermarsi: e incassare.

Fermarsi, e riorganizzarsi. In fondo, Hamas è allo stremo. Non a caso, è stata la Turchia ad annunciare che Hamas non ha obiezioni a un governo tecnico, e anzi, è pronta a sciogliere le brigate al-Qassam, e riconoscere i confini del ’67. Non è niente di risolutivo – soprattutto perché restano altri gruppi armati, a cominciare dall’Islamic Jihad. Ma Erdogan ha ricollocato Hamas in quello che è sempre stato il suo ruolo: un movimento politico, e non solo militare. Un movimento per cui la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. E non il contrario.

Ismail Haniyeh è a Istanbul dal 20 aprile, e in realtà, da molto prima, perché il Qatar, in cui ha sede la principale base americana in Medio Oriente, non è sicuro: mentre la Turchia è un paese Nato. Non è detto che torni a Doha. Ma non c’è solo Erdogan. L’altro personaggio chiave è meno noto, ma altrettanto essenziale: è il siriano Abdallah al-Dardari, l’inviato dell’ONU per i Paesi arabi, storica cerniera tra i sunniti e gli sciiti. Perché il problema è sempre stato il Day After. Cosa fare di Gaza?

I palestinesi hanno deciso da tempo: vogliono primo ministro Nasser al-Qudwa, il nipote di Arafat, che è di Fatah, ma dell’ala di Marwan Barghouti: a cui Sinwar, che sa che non rivedrà mai più la luce, intende consegnare il testimone. Lo scoglio è l’88enne Mahmoud Abbas. Invitato dagli USA a un segnale di discontinuità, ha nominato primo ministro Mohammad Mustafa, il suo principale consigliere. Che non abita neppure a Ramallah, ma ad Amman. E quindi, mentre si cerca di capire, o più esattamente, di calcolare, cosa e quanto offrire alla Fatah ora al governo perché si ritiri, senza arrivare a sparatorie strada a strada, Abdallah al-Dardari è al lavoro per creare una specie di amministrazione Onu de facto.

La Gaza Rehabilitation Authority si occuperà della ricostruzione attraverso agenzie dell’Onu e Ong, con l’Idf ancora sul terreno, ma il potere, via via, affidato sempre più ai palestinesi. In attesa che a Mahmoud Abbas ci pensi Dio. E questo conduce al terzo fattore che ha inciso su Hamas: gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita. Chiamati a pagare il conto stellare della ricostruzione, stimato in quasi 40 miliardi di dollari. Per la sola rimozione delle macerie, 37 milioni di tonnellate, 300 chili al metro quadro, saranno necessari 14 anni. Ma non è un peso, affatto: è un business. Basta guardare i primi rendering, che Hamas sventola orgogliosa in giro: Gaza somiglia a Dubai. Uno dei mediatori ha ribattezzato l’accordo “il Din-Din Deal”. Dal suono del denaro. E la prospettiva, va da sé, è quell’allargamento degli Accordi di Abramo su cui punta tutto Netanyahu.

Perché delle due, l’una: passerà alla storia per il 7 Ottobre, o per avere convertito la peggiore delle crisi nella migliore delle opportunità. Ma lontano dai riflettori, c’è ancora un altro fattore. La West Bank. Che sembra in ebollizione solo perché molte analisi iniziano dal 7 Ottobre. In realtà, dell’Intifada non restano che lapidi nei cimiteri. I coloni ora sono molto più aggressivi, ma Nablus si è arresa, Jenin si difende e poco più, e il 3 maggio Alaa Adib, il comandante di Tulkarem, l’ultimo bastione, è stato infine ucciso. E Tulkarem è stata domata dall’Idf, ma soprattutto, dall’Autorità Palestinese. Segno che ha informatori. E cioè, che i palestinesi collaborano. Che i palestinesi sono stanchi. Mentre sul fronte Nord, Hezbollah continua a bombardare: ma campi di sterpaglie. E l’Iran, ora è certo: non verrà in soccorso. E in più, Gaza è inferocita. Senza più il giogo di Hamas, i palestinesi cominciano a parlare. Perché Gaza forse è tornata in prima pagina, sì. Ma è sparita dalle mappe.