19 Settembre 2024
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Il Centro non c’è più

Dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso a oggi salta agli occhi di chi osserva il discorso della politica nazionale una stratificata tendenza al protagonismo della “questione settentrionale” alimentata in origine dalla Lega Nord bossiana. Al tempo stesso, per opposto contrasto, sembra aver modificato pelle la antica e nobile “questione meridionale”, paventata fino a qualche anno fa come il “cancro nazionale” sempre da parte della Lega e difesa, in maniera alternata da centro-destra e centro-sinistra, ma soltanto nei limiti spesso di una mera speculazione elettorale. Ultimamente la riforma dell’autonomia delle regioni, varata dal governo Meloni in questo 2024, ha posto con evidenza l’intenzione di separare proprio il Paese secondo sperequazioni appunto territoriali, che comunque parrebbero corrispondere a differenti e concreti ritmi di sviluppo e andamento di economie nelle varie parti del Paese. In questo contesto crudamente oppositivo, con polemiche vecchie e nuove, mai sobillate con così forte impeto in tutta la storia repubblicana, latita ormai da tempo il centro geografico del Paese. Per Eurostat fanno parte dell’Italia centrale le Regioni: Toscana, Umbria, Marche, Lazio. In questo testo riteniamo inserire anche l’Emilia-Romagna per la tradizione politica e civica che la tiene più vicina storicamente alle regioni centrali.

Rapporto sull’economia delle Regioni
Ne ha parlato sul quotidiano Il Messaggero (mercoledì 21 agosto) Luca Bianchi, direttore generale di Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno), riferendo dell’ultimo Rapporto sull’economia delle Regioni che mostra un Centro Italia in difficoltà: “C’è sicuramente un problema di identità. È in corso una nuova polarizzazione tra Nord e Sud, e in questo contesto è mancata un’idea di sviluppo anche per l’asse centrale. Che paga, ritengo, un grande problema di collegamenti infrastrutturali. Nessuno ne parla, ma c’è un’assenza di connessioni orizzontali”. Prosegue Bianchi: “Ci si è concentrati soprattutto sullo sviluppo dei collegamenti che da nord vanno a sud – aggiunge – pochissimo su quelli che vanno da ovest a est. Manca una connessione tra i territori dell’Italia centrale. Si soffre soprattutto sull’asse Umbria-Lazio-Toscana-Abruzzo e Marche. Manca un disegno di sviluppo complessivo. Un contesto nel quale ci sono stati dei fattori di crisi specifica. La deindustrializzazione ha riguardato in maniera marcata l’Umbria. L’unica Regione che forse riesce a salvarsi è il Lazio che, in qualche misura, vive intorno a Roma. Ma nelle province di Frosinone e Latina c’è un peggioramento molto rilevante della situazione economica e sociale. C’è una sorta di meridionalizzazione di questa parte della Regione. C’è per esempio un problema legato alla legalità. Tutta la provincia di Frosinone soffre invece della crisi dell’automotive”.
Provocatoriamente verrebbe da dire: c’era una volta il Centro Italia.
Dall’Emilia-Romagna alle Marche, dalla Toscana all’Umbria la sinistra vinceva e amministrava. Comuni, Province, Regioni di quell’area erano il grande feudo rosso. Oggi questo sistema di potere calmierato da una società civile appassionata e partecipativa alla vita pubblica ha resistito soltanto in alcune “enclave”, mentre il territorio è ormai svincolato da una vecchia appartenenza ideologica o di parte.
E da tempo è scomparso dall’agenda della politica nazionale il centro geografico, la sua importanza come modello politico amministrativo. Si sono dimenticati gli esempi virtuosi di governo del Centro Italia, ma anche quella medietà di lingua, cibo, cultura così preziosa nell’Italia del dopoguerra e oggi mai così tanto bistrattata. Il segno di questa scomparsa (o di questa momentanea trasparenza) è dovuto anche al vecchio slogan della paventata secessione leghista: la passata ventennale narrazione della Padania (che ha avuto negli anni consensi di popolo e diffuse analisi politologiche), in apparente opposizione con Roma e il Sud, ha sottratto spazio e minimizzato soprattutto la rappresentatività del Centro Italia.

Dal capitale sociale al nuovo millennio
Gli scricchiolii del Centro appartengono più alla politica o alla comunità?
Secondo i dati elaborati da una vecchia ricerca guidata da Roberto Cartocci all’Università di Bologna [Dati rilevati tra il 1999 e il 2001 ed elaborati entro il 2006] il Centro aveva il più alto livello di capitale sociale in Italia, cioè una comunità solida. Il capitale sociale – in maniera molto sintetica e secondo la descrizione di Robert Putnam – è “la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo… il capitale sociale facilita la cooperazione spontanea” [R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993]. E cioè “il capitale sociale è considerato quella risorsa che permette di valorizzare il capitale culturale, il capitale simbolico e il capitale economico a disposizione dei singoli individui” [P. Bourdieu, Le capital social. Notes provisoires, in “Actes de la recherche en sciences sociales”, n.31, 1980]. In sostanza un valore che descrive una società civile democratica e coesa, discretamente rispettosa delle norme, tesa a tenere d’occhio l’interesse collettivo sopra a quello particolare.
Cartocci analizzava alcuni dati relativi alla vendita dei giornali, l’affluenza alle urne, il numero di donatori di sangue ogni 1.000 abitanti, il numero di società sportive ogni 1.000 abitanti. E in ciascuno di questi quattro temi i parametri della migliore prestazione e della maggiore partecipazione si verificavano nelle province del Centro Italia. Rispetto all’affluenza alle urne, cioè alla partecipazione elettorale media per Regione i dati erano inequivocabili: le prime quattro Regioni italiane sono Emilia-Romagna (65,4), Toscana (60,10), Umbria (59,1), Marche (58,6). A conclusione dell’analisi Cartocci, unendo i dati dei quattro temi analizzati, elaborava un “indice finale di dotazione del capitale sociale” dove brillavano in assoluto in tutta Italia le seguenti province: Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì-Cesena, Massa-Carrara, Lucca, Pisa, Livorno, Siena, Pistoia, Firenze, Perugia, Ancona [R. Cartocci, Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia, Il Mulino, Bologna 2007].
Da questa analisi di circa 20 anni fa sembra che la società civile del Centro Italia fosse ancora forte e il tessuto sociale tenesse ancora. Ma se i dati analizzati da Cartocci non fossero bastati, nel 2011 correva a consolidarli il rapporto del Censis, commissionato dalla Regione Toscana (l’ultimo commissionato) che, nelle Considerazioni generali, scriveva: “Se nei precedenti Rapporti sulla situazione sociale della regione realizzati dal Censis si era sottolineato come la società toscana beneficiasse di un tessuto comunitario consolidato e capace di dare coesione al contesto, il presente Rapporto mostra come quel tessuto comunitario ha saputo nella crisi mettere in moto capacità e risorse aggiuntive in grado appunto di dare alle famiglie toscane quel supporto necessario per rispondere alle difficoltà improvvise emerse” [Censis, Rapporto sulla Toscana, Edizioni ETS, Pisa 2011]. Una rappresentazione sufficientemente ambigua per lodare il senso civico della comunità toscana, senza affliggere la parte politica che è accennata come eco. Quindi, se il capitale sociale teneva ancora circa 10 anni fa, la domanda da porsi è se la politica del centro-sinistra che allora governava ancora in maniera diffusa la maggioranza dei Comuni, delle Province e tutte le Regioni del Centro Italia fosse in linea con questa tenuta civica, o soffrisse di limiti maggiori e di scarso interesse sociale. Prendiamo il 2011 come anno da analizzare per gli anni Dieci. E infine prenderemo il 2024 come anno da analizzare per gli anni Venti.

2011
Analizzando il biennio 2010/2011 e prendendo a parametro la capacità di aggregarsi e presentarsi uniti alle elezioni amministrative di quel periodo, alcuni casi selezionati hanno dimostrato come la pratica politica del centro-sinistra vivesse una forte litigiosità interna e dimostrasse scarsa capacità di pensare oltre i propri limitati calendari.
Prendiamo l’Emilia-Romagna. Minata a partire dai primi anni 2000 da una battaglia mediatica di Silvio Berlusconi contro le “cooperative rosse”, il capoluogo aveva già dimenticato il suo esemplare “modello Bologna”, quando fu perduta la verginità di intoccabile roccaforte di sinistra con il sindaco Guazzaloca, che nel 1999 portò il centrodestra alla guida di Palazzo D’Accursio. Col Sindaco Merola ci fu una nuova giunta che sembrava volesse dare nuovo slancio alle politiche progressiste in città, ma serve ricordare che prima di questo mandato Bologna fu in mano al commissario prefettizio, dopo le note vicende di “sesso e bancomat” del sindaco PD Flavio Del Bono e della segretaria-amante Cinzia Gracchi: sciocca resa dei conti tra amanti che aveva distrutto la credibilità del centrosinistra cittadino.
La Toscana, sempre altera, si è rinchiusa in un apparente appartamento dorato, sviluppando ancora più il suo tradizionale conservatorismo. Firenze tentava di resistere alle spallate della crisi con storia e cultura, ma non trovava slanci verso una ripresa decente di sviluppo, con aziende medie al limite della chiusura (nell’area di Grosseto, di Piombino, di Arezzo, di Massa e Carrara) e un discreto blocco infrastrutturale che il governatore Rossi stentava a far ripartire. A poco servirono gli slogan del grande comunicatore Matteo Renzi, di fronte al vuoto della proposta politica e al sempre più imperante monolite della sola industria turistica che, in quel periodo, arrivò a mettere in dubbio anche il primo maggio, festa del lavoro.
Umbria e Marche, a parte rarissime eccellenze, videro diminuire l’impeto economico delle loro aziende (dell’abbigliamento o della gastronomia) a favore di competitori forti delle nazioni emergenti dell’Unione europea, soprattutto dell’Est. E il bel vivere, la quiete delle città a misura d’uomo hanno lasciato il passo a specie di città-ospizio per pensionati, diventate gabbie per giovani eternamente in cerca di occupazione.

In questa situazione un po’ spenta e scarsa di entusiasmo un esempio dell’assenza del centro Italia si ebbe alle elezioni amministrative del 2011, quando tutti con gli occhi erano puntati verso il nord di Milano, ultimo baluardo pro o contro Berlusconi, con la sfida tra Pisapia e la Moratti, e verso il sud di Napoli, fronte aperto di polemiche e laboratorio di nuove facce e idee, con l’outsider De Magistris.
La dimostrazione che il centro geografico del Paese non teneva più come una volta si vide anche nella frammentazione dei candidati sindaci e delle liste del centrosinistra che si presentarono alle elezioni amministrative 2011, come si osservò in alcuni comuni grandi e piccoli, dove storicamente la sinistra aveva sempre prevalso in maniera unitaria.
In Toscana ci fu l’esempio di Sansepolcro dove c’erano cinque candidati in corsa, di cui uno solo raggruppava tutto il centrodestra: Fabrizio Innocenti, appoggiato da PDL, UDC, Lega Nord, FLI e da una lista civica. Al contrario il centrosinistra si presentava frantumato. Tolto il candidato di centro, Gianluca Polidori, rappresentavano il centrosinistra Daniela Frullani, diventata sindaco (sostenuta da PD, Socialisti, API), Danilo Bianchi (sostenuto da Rifondazione e SEL, IDV, una parte del PD, una lista civica), Mirco Giubilei (della lista civica di vecchia ispirazione craxiana “Viva Sansepolcro”). Addirittura c’era anche una spaccatura in seno al PD. Il risultato fu un ballottaggio che forse poteva essere evitato.
In Umbria si è esagerato alle elezioni comunali di Città di Castello (storicamente governata dalla sinistra) dove i candidati sindaci erano sei, di cui soltanto uno del centrodestra, Cesare Sassolini, sostenuto da PDL, Lega Nord e due liste civiche. Invece il centrosinistra si divise schierando tre candidati a sindaco: Luciano Bacchetta (diventato sindaco al primo turno con il 50,8%), sostenuto da PD, Socialisti e una parte di Rifondazione Comunista; Paola Anna Pillitu (che ottenne il 12,2% di voti), sostenuta da IDV e una lista civica di ispirazione centrista; Simone Cumbo, appoggiato da SEL (che ottenne il 2,5%). Gli altri due candidati erano Paolo Bettacchioli dell’UDC e Francesco Polidori con quattro liste civiche ispirate al centro. Quindi anche in questa cittadina umbra notiamo l’unitarietà dei partiti di centrodestra e la frammentazione della sinistra e pure del centro [Dati forniti dall’Ufficio elettorale del Comune di Città di Castello].
Questo lampante esempio della frammentazione a sinistra e al centro è stato replicato in successive elezioni amministrative toscane anche negli anni Venti – come vedremo più avanti in questo articolo.
In Emilia-Romagna prendiamo come esempio la ex città-faro della sinistra, Bologna. Qui gli elettori di centrosinistra si riconobbero ampiamente in Virginio Merola (diventato sindaco al primo turno con il 50,4% di voti) appoggiato da PD, IDV, SEL, Rifondazione e Comunisti. Tuttavia, a parte lo spazio minuscolo di Massimo Bugani (che ottenne lo 0,7% di voti) per il Partito comunista dei lavoratori, si assistette a una prova elettorale ottima da parte di Massimo Bugani (che ottenne il 9,5% di voti) per il Movimento 5 stelle. Mentre anche il centro terzopolista e il centrodestra correvano divisi [Dati rilevati da il sussidiario.net].
In questi tre esempi (Sansepolcro, Città di Castello, Bologna) saltava agli occhi la divisione delle liste di centrosinistra in alcuni Comuni del Centro Italia e il forte impatto elettorale di un movimento a-partitico come era ancora quello di Beppe Grillo. Il dato di fondo era comunque la frammentazione: ci si era presentati disuniti proprio in quei centri e in quelle zone dove si fondava la base elettorale forte del centrosinistra e dove non erano necessarie, in termini numerici, neppure alleanze con i partiti centristi.
Se è vero che i dati elettorali sono spesso vincolati a esperienze territoriali specifiche, è pur necessario riconoscere che già in quel decennio sembrava di vedere una certa scomposizione della varie sensibilità nel centrosinistra, e la vocazione maggioritaria su cui era stato fondato il PD pareva già dover fare i conti con una rappresentatività più sfaccettata.
Per quanto riguarda la frammentazione però il problema non era soltanto limitato alle mancate o alle limitate coalizioni elettorali a sinistra. La tenuta del centrosinistra in alcuni enti locali dove governava stava dando segni di cedimento.
In Toscana ci furono situazioni che misero in fibrillazione due amministrazioni locali intorno ai primi anni Dieci. La prima fu quella del Comune di Gavorrano, dove il Sindaco di SEL fu sfiduciato il 14 settembre 2011, con nove consiglieri del PD che si dimisero, facendo cadere la maggioranza. Il motivo non pareva essere la cattiva amministrazione, ma una resa di conti interna che prese a pretesto una questione formale legata a un permesso di aspettativa dal lavoro di dipendente comunale, richiesta con qualche giorno di ritardo dal candidato sindaco Massimo Borghi. La seconda riguardò il Comune di Livorno che dovette ricompattare un programma di governo e individuare nuovi assessori da parte del Sindaco PD Alessandro Cosimi, dopo la bufera avvenuta con le dimissioni del vicesindaco in quota IDV e il congelamento delle deleghe di giunta. Lì l’IDV era di fatto un partito commissariato dalla propria direzione regionale.
L’IDV aveva problemi interni anche nelle Marche, dove per tutto il 2011 tenne in costante fibrillazione il Comune di Ancona e la giunta di centrosinistra del Sindaco Fiorello Gramillano, ad opera di Davide Favia (ex FI e Udeur). Inoltre si è aperta una resa dei conti tra due opposte fazioni dell’IDV che tengono in scacco anche altre maggioranze in Comuni più piccoli della Regione [Cfr. Il Tribuno, 1 agosto 2011, http://www.iltribuno.com/articoli/201008/lagonia-politica-non-e-appannaggio-del-solo-berl.php].
In Umbria fu tutta interna al PD la crisi di giunta nel Comune di Terni, dove l’anima bersaniana e quella dell’ex-Margherita litigarono e così tennero scacco l’amministrazione guidata dal Sindaco Leopoldo Di Girolamo che ebbe grossi problemi anche a discutere e approvare il bilancio, solo perché “La crisi all’interno del gruppo consiliare del Partito Democratico continua a divampare [in consiglio comunale] nonostante gli appelli dei vertici e la difficoltà del momento economico della città [e] il fronte degli emendamenti  è il finto motivo di discordia tra le parti del Pd che stanno invece giocando una partita sul rimpasto in Giunta per riequilibrare il peso delle due anime: Bersaniani e Ex Margherita” [Cfr. Umbria Left, 2 maggio 2011, http://www.umbrialeft.it/notizie/crisi-giunta-terni-ancora-fumata-nera-continua-lotta-rimpasto-nel-pd].
Ma forse, all’epoca, viste dal loft della segreteria nazionale, queste potevano apparire soltanto come piccole schermaglie locali che andavano risolte sul posto, visto che a Roma i problemi erano ben maggiori. Ognuno dei dirigenti più in vista del PD sembrava correre in solitaria, se non per accaparrarsi la leadership del partito certamente per indebolire o disarcionare quella esistente, e questa pratica era valutata dai vari competitori come un contributo per rinforzare la politica del PD, ma in realtà sembrava dare adito soltanto a uno stato di minorità del partito.
A fronte di questi esempi negativi, negli anni Dieci, c’erano tante realtà territoriali forti e solide che resistevano e permisero di mantenere consensi nel Centro Italia. Furono presidi di buon senso di fronte a questa rilevanza della scomposizione a sinistra. Tuttavia gli scricchiolii pur minimi cominciarono a farsi avanti.
Di fronte dunque alla domanda se negli anni Dieci la responsabilità di un cedimento del Centro geografico del Paese fosse più la società o la politica, non c’è una risposta univoca. Possiamo notare senz’altro che la dirigenza politica a livello centrale e locale ha agito spesso in chiave autoreferenziale, ignorando spesso le necessità delle comunità di riferimento e la partecipazione attiva dei propri militanti. Tutto ciò produsse, già in quegli anni, scarsa capacità di coesione interna, litigi partitici e insofferenza nei confronti della politica che arrivò finanche a sfilacciare il tessuto sociale.

2024
Nell’anno attuale il Centro del Paese ha visto appunto una flessione economica ulteriore, rispetto al 2011, come indicato dal Rapporto di Svimez (citato in avvio di questo articolo), per bocca del suo direttore generale Luca Bianchi che dice: “C’è una frammentazione del Centro. Alcuni territori, come il basso Lazio e l’Umbria, si stanno effettivamente avvicinando al Sud. Altri rimangono agganciati al Nord, come la Toscana, senza però averne il dinamismo. Poi c’è Roma che resta un microcosmo a parte. Ma quello che attualmente manca è un’idea politica di sviluppo dell’area centrale del Paese. Sarebbe forse il momento di iniziare a pensarci”.
Di fronte a una quasi totale occupazione dei governi regionali e locali nelle regioni centrali italiane da parte del centrosinistra, almeno fino agli anni Dieci di questo secolo, la situazione politico-amministrativa al 26 febbraio 2024 [fonte Wikipedia] del governo delle regioni è la seguente: Emilia-Romagna e Toscana governate dal centrosinistra; Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo governate dal centrodestra. Mentre le ultime elezioni amministrative, unite alle Europee, hanno mostrato una Centro Italia ormai totalmente svincolato da appartenenze politico-ideologiche. In Toscana, per esempio, su dieci capoluoghi di provincia il centrodestra governa in sette (Arezzo, Grosseto, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia, Siena) e il centrosinistra in tre (Firenze, Livorno, Prato).
Non è quindi una questione di colori dei governi cittadini o regionali, ma di scelte nazionali, in merito a allocazione di risorse per sviluppo industriale e a investimenti infrastrutturali. Sembra che il centro geografico del Paese sia stato abbandonato dalle politiche nazionali, tutte tese (governi di sinistra o di destra o tecnici, nessuno escluso) a porre la loro attenzione primaria sul nord che deve essere sostenuto per non perdere l’aggancio con il resto dell’Europa, e sul sud che non deve essere abbandonato alla miseria mediterranea.
L’esempio di Toscana, Marche e Umbria, ormai senza strutture industriali forti e col padrone turismo “croce e delizia” di questi territori, è ormai classico: il cosiddetto overtourism, cioè l’asservimento ai flussi vacanzieri che non sono più stagionali, ma si diffondono in tutto l’anno sia nelle città d’arte, sia nei luoghi della balneazione e della montagna, sia per il cibo. Alcuni ristoranti di eccellenza chiudono per una ristorazione che ha una domanda molto bassa di prezzo e di qualità da parte di turisti “mordi&fuggi” [cfr. inchiesta Corriere della Sera, di Emiko Davies, Così l’overtourism sta distruggendo i ristoranti, 4 agosto 2024]. Il turismo diventa primo motore economico e sfalda il tessuto sociale urbano, con case allocate per affitti brevi turistici, con i residenti cacciati dal centro e con centri storici sempre più vetrine non vissute. Il Centro Italia viene lasciato ad arrangiarsi da solo con le possibili economie di risulta, come il turismo.
Dal punto di vista invece dello stato del centrosinistra al governo nei Comuni dei territori centrali italiani la situazione è in parte degenerata dal 2011, con molte amministrazioni locali governate ormai dal centrodestra e con varie zone dove sinistra e centrosinistra non sono riusciti a presentarsi uniti – cosa che sta cambiando dalla proposta di “campo largo” fatta dalla segretaria del PD Elly Schlein. Ma nelle zone periferiche i dissidi interni al PD resistono in modo forte. Prendiamo un solo esempio eclatante di ciò che il maggiore partito di sinistra è riuscito a fare in un piccolo comune della provincia di Pisa, Capannoli. La sindaca in carica non era ben voluta da un pezzo del PD locale (quelli di Base riformista) e volevano cambiare facendo le primarie per non permettere alla sindaca il secondo mandato. Una parte del PD, quella schleiniana, ha tentato di portare a ragione il partito tutto, dicendo che non c’era motivo per non ricandidare una sindaca che aveva fatto bene in un comune con poco più di 6mila abitanti. La sindaca era sostenuta da una capannolese importante, l’assessora regionale alla Pubblica Istruzione, mentre la posizione della segreteria comunale e provinciale del PD era data dal presidente del Consiglio Regionale della Toscana. La sindaca Arianna Cecchini si è presentata alle elezioni amministrative del 2024 con una lista civica e ha vinto le elezioni, mentre il PD aveva presentato un’altra candidata che ha fallito. Successivamente, con vari tentativi, il PD di Capannoli e quello provinciale pisano hanno chiesto di espellere dal PD Arianna Cecchini e tutti i militanti piddini che l’avevano sostenuta come civica, compresa l’assessora regionale Nardini. Nonostante la segreteria regionale del PD abbia messo la parola fine alla vicenda, dicendo che il PD non avrebbe dovuto espellere nessuno, il PD provinciale pisano e comunale hanno insistito con alcuni articoli di una stampa accondiscendente.
Ecco come la rappresentanza politica di centrosinistra può, a volte, contorcersi al proprio interno, dettata da antipatie e interessi personali, tanto da arrivare quasi a distruggere una serenità sociale, a mettere a repentaglio il buon senso di una comunità pur piccola come un paese di circa 6mila abitanti. Questo esempio segna il punto di non ritorno di una politica che non sa più interpretare i bisogni di una comunità, e non ha più le caratteristiche per poter rappresentare in maniera seria e onesta un territorio. Così si cancella non soltanto il buon nome di un’area geografica che ha sempre rappresentato la medietà e il buon governo, ma anche quel famoso “capitale sociale” che ha sempre contraddistinto in positivo il Centro Italia.
Dunque il Centro Italia sta scomparendo non soltanto dalla retorica politica italiana, ma anche dagli slogan concreti dei partiti di tutte le varie colorazioni politiche: ne parlano soltanto a destra come territorio da bonificare totalmente dai rossi, a sinistra come terreno di riconquista contro i fasci.
Di fronte a tanta superficialità servirebbe forse un piano nazionale che ricominci a pensare a un modello di sviluppo sostenibile per il centro geografico della penisola italiana.