Civiltà e cultura occidentali
Nel tranquillo contesto dell’entroterra inglese a Bedford, un’ora a nord di Londra, si è svolta il 17 e 18 agosto la riunione dell’accademia Ideas matter. Come dice il nome, Le idee contano, il tema delle conferenze era di ampio respiro: “La civiltà è sotto minaccia?” https://ideasmatter.org.uk/civilisation-under-siege-the-academy-2024
La Academy è un’iniziativa di stampo poco ortodosso. È una charity quindi un ente privato, un ibrido tra l’università e il think tank. Ma non è un think tank. Usualmente infatti in UK i think tank dagli anni Ottanta sono venuti raccogliendo l’élite intellettuale di destra che ha disertato in massa le università con i risultati evidenti sotto gli occhi di tutti: cultura woke e anti-autoritaria (sedicente) a un tanto al kilo, con contorno di sprazzi antisemiti insistiti a partire dallo scorso ottobre.
Infatti, per via delle fondazioni opportunamente incanalate, il Regno Unito sconta una sudditanza non solo ideologica ma programmatica, costitutiva di dipendenza dalla narrativa anti-occidentale imperniata su una certa narrazione che vuole l’occidente e la sua civiltà colpevoli di ogni male e biasimo nei quali incorrano le donne e gli uomini d’oggi. Come se il male fosse mai stato disgiunto dal bene!
Il ciclo di conferenze sulla civiltà occidentale nasce quindi in questo clima poco propizio. Da circa vent’anni l’iniziativa vuole opporre una diga alla reazione che ha portato progressivamente la civiltà occidentale a essere più infelice, meno disposta a sorridere e scambiare battute umoristiche. In una parola, alla perdita del senso di confidenza.
Lo storico dell’arte Kenneth Clark, autore negli ultimi anni Sessanta di un bel documentario dal titolo “Civiltà. Una prospettiva personale” (reperibile integralmente su Youtube https://youtu.be/sX_r9R98DiY?si=LGVJhWoYSz7wqq3Z) era in un certo senso il nume che ha presidiato le sedute per le sue belle definizioni. Celebra quella per cui “non saprei dire cos’è la Civiltà. È un termine astratto che faccio fatica a definire. Ma si può dire che essa sia qualcosa che fiorisce laddove una popolazione nutre un senso di confidenza in se stessa.”
Ora questa “confidenza” è sì qualcosa di diverso dell’ottimismo, ma è pur rara. È un delicatissimo equilibrio tra scelte umanistiche e spinta al progresso tecnologico che oggi vede davanti a sé l’ostacolo della cultura etnicista woke (con le sue trovate volte a “decostruire la filosofia dell’uomo bianco”) alleata a un relativismo male inteso il quale non regge alla penetrazione morbida dell’Islam politico in Europa. Ma nemmeno, va detto, si è mai proposto di opporsi ad alcunché.
I relatori al ciclo di conferenze a partire dal Professor Frank Furedi hanno indicato come l’alleanza “poco santa” entro un preciso campo di forze sia più che mai evidente in seguito ai fatti dello scorso ottobre a Gaza: forze queer e woke (ma non chiedetemi cosa siano perché diversamente dalla Civiltà, essendo fluide, sono difficili da definire!) abbracciate in uno slancio appassionato con un islamismo politico irriflesso. Immaginate questo coacervo infuso con pervicacia nelle teste di alcuni ventenni in cerca di sensazioni forti e di presunte “guide morali” e aggiungete che questi giovani non hanno nozione o memoria di cosa fu l’11 settembre, e avrete la tempesta ormonale perfetta.
Dunque, anche per difendersi da queste potenze si è parlato di Civiltà il 17 e 18 agosto. I relatori Jacob Reynolds e Tim Black hanno evocato pagine importanti di Jakob Burckhardt e Samuel Huntington che rispettivamente hanno sdoganato, a metà Ottocento (“La Civiltà del Rinascimento in Italia”) e dopo la Guerra Fredda (“Lo scontro di civiltà”), le nozioni di civilizzazione come delicato “fiore miracoloso sbocciato nel deserto”. Se Burckhardt avesse letto (ma sicuramente l’aveva incrociata in quanto erudito teutonico calato in Italia) la poesia di Leopardi sulla civiltà come miracoloso e incerto equilibrio simile a una ginestra alle pendici del Vesuvio, sarebbe stato d’accordo nel recepire la metafora. Discorso diverso per Huntington che partiva da posizioni provocatorie osando dire (nel 1996! Cioè cinque anni prima dell’11 settembre) che lo scontro con la civiltà araba ci sarebbe stato comunque a prescindere dal contesto pacificato entro “l’ordine globale degli Stati Uniti.”
Riassumendo l’analisi dei conferenzieri possiamo dire che la civiltà si svolge tenendo sullo sfondo un contesto ma distaccandosene per ottenere qualcos’altro, come in uno slancio. Essa è insomma un sistema di comportamenti e azioni ben diverso dalla Cultura la quale ha, invece, ha un’accezione più ristretta (“more parochial”) entro un campo composto da svariate identità di gruppo. Eppure la cultura ha di buono che può condurre al Multiculturalismo. Mentre la Civiltà aspira al futuro entro un contesto più ampio e universale.
Queste nozioni possono sembrare vaghe e incerte ma quando l’Europa si spaccò in due nel 1914 esse erano ben presenti a spiriti che, come Thomas Mann, sino a un momento prima delle dichiarazioni di guerra si ritenevano “cosmopoliti” ma che poi si scoprirono più per la Cultura o più per la Civiltà. All’epoca Mann decretò che tedesca era la Kultur; vaga e informe la francese Zivilisation. Sappiamo com’è andata a finire, anche perché nel frattempo la lingua franca è diventato l’inglese della Civilization…
È pur vero comunque che la Civiltà delineata da Huntington a fine Guerra fredda è stata banalmente equiparata all’ordine internazionale stabilito dagli U.S.A. e su di essa si è basata. Un po’ come se Machiavelli dopo esser stato estromesso da Firenze anziché scrivere un trattato politico si fosse dedicato a stendere il bilancio minuzioso della Repubblica fiorentina passata sotto il controllo imperiale. Il compito di Huntington non era facile perché da americano era complesso vedere come le altre civiltà sarebbero emerse entro il maremagno della globalizzazione indistinta.
Le conseguenze di quel periodo di euforia intesa come un basso continuo, senza interruzioni ma con tanti errori (portare la Cina dentro l’Organizzazione mondiale del commercio nel dicembre 2001, denuclearizzare l’Ucraina e portare le testate in Russia) le vediamo oggi. E un po’ erano già nelle pagine di Huntington, in particolare per quel riferimento preciso alla divisione e alla spaccatura dell’Ucraina. Si capisce che dal 1996 e fino all’11 settembre questo libro–che lasciava intendere quali fossero le conseguenze dell’esplosione demografica islamica–non godette di buona stampa né tra repubblicani né tra democratici…
https://www.amazon.it/scontro-civilt%C3%A0-mondiale-geopolitico-pianeta/dp/8811674999/ref=mp_s_a_1_1?dib=eyJ2IjoiMSJ9.0m8Yqy91w2AKR9FHogjn5gTYM4w9CJAHsqMtNdJNqGZdllUfLkDbx3qRETU2fFFDi0vaRNsn_o8GsyOCsSMxS73uo4uG_cmdB2O_wTPkDO4SBoteVIdoEez39Qf2wkOc9vYjJ2TfHc0Ercp3CkOqKoSvMan4Y9fkqgg5GVoLYoPpa_9IeHmS4fq5A9jIM4TfBDp3R4rsxZFXGwzUiz6dIA.QgX1Q9qKt_Ayy8P7ZC3s83LbVV7CINp50Tzt2ebSRXg&dib_tag=se&qid=1724022451&refinements=p_27%3ASamuel+P.+Huntington&s=books&sr=1-1
Oggi la situazione si è ulteriormente incancrenita e il blocco antioccidentale raggruppa varie identità, non solo i “putiniani”. Nelle sue varie configurazioni il gruppo anti-civiltà include:
1. La cultura woke basata sulla percezione che si ha ad libitum del proprio genere, la quale demonizza chiunque non voglia rientrare in questi incasellamenti.
2. I decolonizzatori che indulgono nel piacere masochistico di indicare a noi, che viviamo come nella poesia di Primo Levi “nelle nostre tiepide case”, le sofferenze di chi subì il giogo dell’uomo bianco.
3. I neoconservatori anti-decadenza che, pur usando le nozioni dello scontro di civiltà di Huntington, incensano Putin e l’altro uomo forte del momento, Xi. Oltre magari ai chierici radicali islamici.
Davanti a queste forze è possibile soltanto ritirarsi e provare freudianamente un pizzico di disagio? Oppure come sostiene Furedi si può controbattere positivamente punto su punto, idea dopo idea facendosi forti di chi come Burckhardt e Febvre ci ha spiegato che cosa fu la Civiltà occidentale? https://frankfuredi.substack.com/p/from-decolonization-to-islamism-civilization?utm_campaign=posts-open-in-app&triedRedirect=true
Certo è che i classici possono fornirci qualche spunto in più rispetto alla sola persuasione retorica. Per esempio ci fanno capire che spesso la critica alla nostra civiltà è partita dall’interno e in particolare da un certo ambiente settecentesco incantato dai selvaggi che si opponevano, con la loro mitologia dell’uomo naturale, a quello civilizzato delle corti europee.
(Chi scrive ricorda “i classici” nelle università, libri con titoli “pop” del tipo “I filosofi e i selvaggi” che da 50 anni fanno la gioia di docenti sempreverdi).
Ma tornando alla civiltà e agli scontri tra blocchi prospettati sul finire della Guerra fredda, resta da valutare che l’Europa all’epoca già andava a diverse velocità. Cosa succedeva per esempio in Italia e in Germania? Il panorama era chiaro e mio avviso il libro di Huntington, tenuto come pietra di paragone nel corso delle conferenze, va storicizzato e inserito nel giusto contesto, il 1996.
La storicizzazione è un’operazione di cui purtroppo la cultura anglosassone mancando di filosofi della storia (che non fossero i marxisti) come Croce o Meinecke risulta carente. Questo lo si è avvertito durante le sessioni, concentrate identitariamente su Shakespeare e, in gloria a Darwin, sull’intreccio uomo e animale in un’ottica di filosofia del diritto.
Cosa succedeva nell’Italia del 1996? Cosa fece in modo che il suo contribuito al PIL mondiale passasse dal 4 per cento a quasi la metà oggi (2,14 per cento secondo Trading Economics)?
Riesce facile rintracciare come da noi già nel 1996 si stessero contrapponendo due culture politiche che per comodità chiameremo “classe dominante” (il governo Prodi) e “il partito della campagna” (analogamente al country party che ha sostenuto Trump in onta all’élite repubblicana che a suo tempo fu illustrata da Bush).
Nel 1996 il governo Prodi non stava allontanando il Paese, contrariamente alla vulgata che se ne dava, dalle tradizioni “comunitarie” o corporative in direzione di un qualche modello anglosassone. Permanevano infatti ingombrantissimi ostacoli culturali per rimuovere il corporativismo e la sua influenza.
Il corporativismo italiano è di origine politica più che culturale, e il governo Prodi non fece altro che peggiorare le cose rimanendo bloccato in quello stampo. A un governo come quello del 1996-98 non riuscì di livellare il campo economico.
L’economia era soffocata dall’aumento delle tasse e da un’amministrazione motivata politicamente, non ideologicamente. Le privatizzazioni erano fatte secondo il modello post-comunista del capitalismo clientelare e il sistema politico fu poco reattivo davanti alla pressione popolare.
La riforma elettorale aveva vietato la pubblicità politica per due mesi prima delle elezioni del 1996, paralizzando così l’opposizione. All’epoca il Nord aveva il prodotto interno lordo pro capite più alto dell’Unione Europea ed era altresì la regione in cui più si denunciava la frode elettorale e si meglio si controllavano i costi della politica.
La rivolta contro il corporativismo che si andava preparando nel Nord era di tipo politico e finì come sappiamo. Dopo Berlusconi abbiamo avuto anni di governi tecnici con l’ombra lunga del partito democratico che insegue l’omologo americano.
La classe politica che venne su nel 1996-1998 agiva (e ancora oggi prova ad agire) mossa da motivazioni di potere e privilegio, non per ideologia. In questo è, forse, meno pericolosa della classe dominante americana che sfolgora tra i democratici ed è molto brava a fare campagna acquisti tra i repubblicani (la cooptazione dentro il regime).
Ma la classe dominante americana, diversamente dalla nostra che la scimmiotta (come avviene anche in Francia e Regno Unito), crede fermamente al woke, alla decolonizzazione e a questo unisce le rivendicazioni tipiche dell’élite che deve accrescere il suo potere dotandosi di un apparato amministrativo e legislativo ad hoc.
Vedremo a novembre cosa succederà. Così sapremo anche storicizzare meglio la lettura di Huntington data dagli “idealisti” inglesi in questa metà agosto. E vedremo se terrà il passo con gli avvenimenti.