Andri Snær Magnason, La pietra del gigante, Iperborea 2024, pag. 160, traduzione dall’islandese di Silvia Cosimini.
Se le parole perdono sempre più valore perché usate troppo e fuori luogo, perché si spreca anche la parola ti amo rendendola vuota e banale, c’è bisogno, sostiene Andri Snær Magnason narratore e poeta islandese, di una parola nuova che esprima la profondità dei sentimenti, di una “frase che rilascia calore, come un calzino rosso nel bucato bianco”. I sei racconti de La pietra del gigante, che non sembrano avere l’amore come tema centrale – eccezion fatta per Dormi, amore mio e Storia felice – eppure traboccano d’amore, quello per la propria terra di luce e buio infiniti, di ghiacciai e vette che emergono in tutta la loro maestosità, come un inno alla bellezza: “le vette si stagliavano contro il cielo come i monti disegnati dai bambini ed erano gialle come il sole, e l’erba che cresceva fino a metà dei declivi era verde. Mi sono chiesto se era possibile amare i monti”.
Vi si trova amore per i legami familiari, per i compagni di monellerie amici fin dall’infanzia, per quei ricordi di allora che restano per tutta la vita; soprattutto la costante ricerca/amore di comportamenti dettati da onestà, correttezza, rispetto degli altri, perseguimento di giustizia sociale, nella cui totale assenza si alza l’accusa, il rifiuto.
Inquietante il primo racconto, Il bombo, che ci mostra “brulli campi di lava, le sabbie nere e le distese di muschio”, ci porta su un’auto che è “una specie di trattore, un avanzo dell’esercito norvegese importato in Islanda nel 1981”, con la benzina che sta per finire, al volante un padre non abituato a guadare fiumi e ad avanzare tra cumuli di neve non ancora sciolta; con una bambina che ascolta un radiodramma sulla guerra atomica e sulla pioggia radioattiva – tema che ritorna in altri racconti. Unica sua gioia un bombo raccolto su un mucchio di neve sporca, ora chiuso in una scatola di fiammiferi, in attesa di un po’ di verde dove liberarlo.
Si può pensare di ritrovare il mondo dell’infanzia in mezzo ai mattoncini colorati di Legoland quando ormai si è genitori, ma l’incanto è svanito, il cuore oppresso dalla scomparsa tragica di un amico, così il vuoto e il dolore si concretizzano nella costruzione di una scatola di mattoncini, nera.
La delusione, la condanna di certi aspetti che ormai connotano la società, sono trasversali: l’accumulo di denaro, l’abbondanza di cui ci circondiamo – anche di troppi mobili, chiara prova di alberi abbattuti -, del consumismo sfrenato, della perdita di ogni freno inibitore, di ogni senso del limite, della dignità personale di chi realizza facili guadagni a danno e sulle spalle degli altri. “Costruire in fretta e a basso costo. Vendere in fretta e a caro prezzo”, a queste scelte immorali si deve piegare un architetto, pena la perdita del lavoro, nello stesso momento in cui è chiamato a progettare una mega villa con i materiali più pregiati per lo stesso committente: “Io rendo visibile la società basata sulle disuguaglianze”. Ma la rinuncia alle proprie linee guida è come un’offesa personale che si fa rabbia repressa, infine violenta ribellione. Il mondo di manager sempre in giro per il mondo, dietro ad affari che nessuno conosce, che vivono tra soldi, sesso e droga, appare con una oggettività e una crudezza drammaticamente surreali: nella scarna oggettività sta la fredda presa di distanza.
Se qualcosa si può salvare – si scopre tra le pagine di Andri Snær Magnason – questo dipende dall’amore, dalla forza dei legami parentali, dal sorriso e dalle parole di un bisnonno – un pezzo di storia – a un nipotino per cui il tempo non ha ancora confini. Soprattutto dipende dalla fantasia e dalla creatività di ognuno, perché solo così si può dissolvere la nebbia che il tempo fa calare sui rapporti, e mantenere viva la sorpresa e lo stupore davanti alla bellezza.