Giuseppina Torregrossa, La Santuzza è una rosa, Giangiacomo Feltrinelli Editore 2023, pag. 240.
Erano quattro le sante che si invocavano perché proteggessero Palermo, ma non erano palermitane, perciò se ne cercava una del posto che diventasse la patrona della città. Ci pensava da tempo padre Giordano Cascini, responsabile provinciale della Compagnia di Gesù, che andava cercando qualsiasi tipo di informazione sulla vita e sulle apparizioni di Rosalia, di cui molti parlavano, una ragazzina dai capelli biondi, dal viso angelico, che si materializzava accanto a chi era nel bisogno, lasciando nell’aria un profumo di rosa. Una santa ci voleva, piuttosto che un santo, pensava il gesuita, “ché le donne hanno una maggiore capacità di mediazione, potrebbe fare il miracolo e mettere tutti d’accordo”.
Questa storia inizia nel 1613 in una parte degradata della città, dove vive Viciuzza, adolescente magra come un chiodo, con le scapole alate, la testa troppo grossa sul collo sottile, costretta a guardare il mondo solo da una finestrella, ingenua, una babbasuna; vive insieme alla madre aggressiva che si porta a letto uomini ripugnanti. Una notte lei trova il coraggio di uscire seguendo “una scia di lucciole” che illuminano le vie e le fanno scoprire i palazzi. Poi il buio improvviso, mani che l’afferrano e frugano sotto la gonna, una lama che le attraversa il basso ventre, la perdita dei sensi, il risveglio con la sensazione di lerciume addosso: disorientata sulla via del ritorno, “qualcuno la prese per mano, aveva un tocco gentile e profumava di rosa”. Liuzza, figlia dello stupro, nascerà con l’aiuto delle stesse mani, quelle di Rosalia, creatura reale, ma ormai non vera, che non abbandona Viciuzza e si ferma a parlare con lei come un’amica. Vari percorsi portano padre Cascini a scoprire che Rosalia (1130- 1170) era di famiglia nobile, bella come un fiore, tanto che la regina l’aveva voluta a corte, dove la vide il conte Baldovino e la chiese in sposa ancora giovanissima; dapprima felice delle nozze, il giorno del matrimonio, specchiandosi, lei vide nello specchio il volto di Cristo sofferente, allora si strappò di dosso gli abiti nuziali e andò a vivere da eremita in una grotta. Rimane un simbolo di libertà femminile, lei che ha insegnato alle donne a dire di no.
Giuseppina Torregrossa ci porta al momento della dominazione spagnola nel periodo successivo al Concilio di Trento, in una città che si riempiva di nobili arrivati dalla campagna, che risuonava di cantieri per la costruzione delle loro dimore sfarzose, mentre aumentava la povertà delle classi meno abbienti, e dove “il tessuto sociale si mostrava lacerato e l’odio era il sentimento più comune”. Mancano soldi, cibo e speranza, la corruzione dilaga: “Chi se li è presi i piccioli?”
La società non perdonava, le famiglie potenti nascondevano le pietre di scandalo, così i conventi traboccavano di “donne perdute”, che tenevano chiusi i loro segreti e cadevano in estasi tanta era la fame che pativano: la madre porta Viciuzza in un convento e la neonata in un orfanotrofio.
Anche la compagnia di Sant’Ignazio non era immune da conflittualità, ipocrisia e bassi sentimenti, infatti padre Cascini, per l’entusiasmo e l’abnegazione con cui svolgeva il suo compito, tra i confratelli aveva suscitato l’invidia – morte comune/ delle corti vizio – ed era stato trasferito a Venezia. La storia si muove tra Palermo, Roma, Venezia, Anversa, Londra, ci fa incontrare Rubens e Van Dyck chiamati ad abbellire gli interni delle nuove chiese – i fedeli dovevano essere stupiti, secondo le linee del Concilio -. A Palermo si incontrano le strade di Viciuzza e di sua figlia con quelle di padre Cascini e della pittrice Sofonisba Anguissola; si assiste a una progressiva crescita e trasformazione di lei, inserita in un contesto familiare dove scopre l’affetto, dove acquista sicurezza di sé. A portare anche un sorriso ci pensano due suorine che svolazzano intorno a padre Cascini, Mano destra e Mano sinistra, premurose, affettuose con Liuzza e sua madre, che stanno a ciuciuliare in disaccordo su tutto e si litigano l’affetto della piccola come due bambine.
Se finora la Torregrossa ci ha portato in un secolo su cui sembra ricalcato il nostro tempo con tutti i suoi malanni e vizi – violenza contro le donne, stupri, enormi differenze sociali, miseria, conflittualità, malgoverno, corruzione, ipocrisia – la peste che colpisce Palermo nel 1624 ha lo stesso aspetto dell’epidemia da Covid che ha colpito dovunque nel 2020: non doveva attraccare al porto il galeone arrivato da Tunisi, perché c’era possibilità di contagio, ma al viceré negazionista fanno gola i doni che porta per lui. I morti non si contano, dovunque bruciano fuochi di materiali infetti; il protomedico fa isolare gli ammalati, chiede che la gente rimanga chiusa in casa, che si evitino gli assembramenti, ma l’arcivescovo intensifica riti e processioni. Passano i carretti a raccogliere i morti, come nella Milano de I promessi sposi. Solo le ossa ritrovate di Rosalia faranno finire la peste a Palermo, portate in processione dalla determinazione delle donne: “Ma perché proprio Rosalia? – chiede l’arcivescovo a Vincenza che ora non si fa più chiamare Viciuzza. “Perché ha scelto lei come vivere la sua vita e a noi parla di libertà […] Si è opposta al matrimonio con Baldovino, ha vissuto come voleva, perciò la amiamo, perché è un esempio, una speranza. Pure per noi prima o poi le cose dovranno cambiare”. Una speranza che ancora oggi coltiviamo per giorni migliori.