13 Marzo 2025
Sun

Saverio Bafaro, Osicran o dell’Antinarciso, Il Convivio, 2024, pp. 72, € 12,50

di Leonardo Taverni

Osicran o dell’Antinarciso di Saverio Bafaro – quarto libro del poeta, dopo Poesie alla madreEros corale Poesie del terrore – rappresenta un “percorso iniziatico” dal buio alla luce della vita, dalla mortificazione alla vivificazione della carne, della pelle, del contatto, proseguendo la ricerca filosofica e stilistica dell’autore. Il percorso tracciato dai testi è caratterizzato da una costante, altalenante e perpetua ricerca di equilibrio tra eccessiva presenza ed eccessiva assenza dell’essere umano posto di fronte a sé stesso, attraverso la principale metafora adoperata: ‘lo specchio’, in una ambigua dinamica di attrazione-repulsione, erotismo e fobia, creazione e disfacimento. Viene disvelata una visione capovolta e compensativa della deriva narcisistica nella quale sembra affondare il mondo contemporaneo. ‘Osicran’ (‘Narciso’ con le lettere specularmente al contrario) è personificazione e incorporamento dell’Antinarciso, allegoria giunta a controbilanciare l’unilateralità dei protagonismi dell’Io, di cui il microcosmo dell’ambiente poetico odierno ne è un esempio, Bafaro ammonisce e prepara il lettore, infatti, sin dal primo componimento-epigrafe: «I poeti attentano / l’ineffabile Identità / con sigle arricciate / di nomi da dimenticare». Si notino tre principali aspetti, i
vissuti autobiografici: «L’ombra proiettata sul muro / la mano pronta a disegnarne / attenta il contorno in nero, / il perimetro di una figura come fosse cosa qualsiasi, / la sua testa e il suo volto / nelle sue spalle da studio; […]»; le epifanie del mito classico (ispirazione assoluta e primigenia per permetterne poi il consequenziale “rovesciamento” delle immagini): « Si scelga come luogo un Bosco / dove elementi appaiano in progressione / sulla scena davanti ai vostri occhi / Verità sarà l’essere più timido / sia esso sasso, stagno o volto / l’acqua si muove insieme all’aria / se tacesse il vento l’immagine / risulterebbe fissa e attonita / e foriera di richiami verso il nulla / mai si raggiunga questa visione pena la vita / – non vogliamo piangere nuove scomparse – / e ancora si soprassieda nella sopravvivenza / scrivendo lettere sulla superficie dell’acqua»; e sue precise riattualizzazioni: «Il fiore scoperto dalle ninfe / dall’altra parte del fiume / tra gli alti ciuffi d’erba / a formare una breve parabola / è ora venduto nei supermercati / le sue campanelline dorate / sono ora un giallo ridente / colpito da un neon potente / uno smile senz’anima. / Gli avventori e gli astanti / ‒ privi di memorie ‒ ignorano / quante trasformazioni ha avuto / quel nero terreno da cui è cresciuto / per apparire ricurvo su di sé / e non dritto a sfidare la luce del dio». Queste tre macro-dimensioni del tessuto mito-poietico interagiscono e si intrecciano, invocando una catarsi, per riflettere eticamente sulla prassi dell’incarnare la poesia. Più volte risuona – lungo la sabbia, il fuoco, la superficie riflettente e l’acqua eraclitea della mutazione – la molteplicità, la complessità e la contraddittorietà dell’essere che chiamiamo ‘uomo’, in quello che possiamo definire un vero e proprio compendio di sapienza teorico-pratica sulla psiche: «Il mio cuore trova armonia / nel movimento del Pendolo / in quell’andirivieni mi vedo / tracciare un tragitto compiuto / nel partire e nel ritornare / nell’avvicinarmi e nel fuggire / nel perdermi e nel ritrovarmi / nell’apparire e nello scomparire. / Non possono vivere solo i due poli: / l’agonia dell’Io e la sopraffazione del Tu / l’agonia del Tu e la sopraffazione dell’Io… / Quante innumerevoli altre posizioni / si segnano in mezzo all’oscillazione / senza finire alti e distorti negli estremi, / possano sperimentarsi lì gli inciampi / dei giorni e le innumerevoli risate / dissacranti dalla voce di un dio solitario».