13 Marzo 2025
Sun

Knud Rasmussen, A nord di Thule, Iperborea 2025, pag. 256, traduzione dal danese di Bruno Berni.

 

Sei mesi per attraversare due volte la calotta polare, da ovest a est e ritorno, fino oltre il settantasettesimo parallelo, per esplorare e cartografare una parte della Groenlandia dove nessuno aveva mai messo piede, e per verificare l’esistenza o meno del canale di Peary, che secondo un esploratore americano separava la Groenlandia da un’isola a nord, canale che invece si scoprì che non esiste. Questa la spedizione di Knud Rasmussen nel 1912, insieme al cartografo danese Freuchen, due esperti uomini inuit, quattro slitte e cinquantatré cani. Lo racconta nel suo diario di viaggio che raccoglie, opportunamente rielaborati, tutti gli appunti presi sul taccuino che ogni esploratore deve avere con sé. Un obiettivo importante, oltre alla scoperta del territorio, era quello di ritrovare due esploratori che non avevano fatto ritorno da troppo tempo. Rasmussen si valse di tutto ciò che aveva imparato dagli inuit: l’uso della slitta, le tecniche di caccia, il regime alimentare, l’uso degli strumenti dell’epoca per rilievi meteorologici e cartografici, nonché dei fucili che ormai erano arrivati anche tra gli inuit.

Nato nel 1879 da padre danese in Groenlandia, Rasmussen vi era rimasto fino a dodici anni prima di trasferirsi a Copenaghen per gli studi, perciò ne conosceva la lingua e gli usi, grazie alla nonna inuit che lo aveva educato, inoltre aveva già fatto una spedizione per raccogliere dalla voce dei locali le storie e le tradizioni. A Thule nel 1910 aveva aperto anche una stazione commerciale che Freuchen gestiva.

A nord di Thule è una lettura che coinvolge, è la storia di un’avventura coraggiosa al limite delle possibilità umane: “Devo confessare che i rischi del viaggio erano noti a tutti noi, ma la sfida, per così dire, ci era solo di ispirazione nella fatica quotidiana”.

Si parte dunque verso “la fine del mondo”, Ragnarok nella antica mitologia nordica, e il buon esito del viaggio dipenderà dalle scorte di cibo e dai cani: quando non c’è più carne di tricheco congelata – hanno scorte per un mese – si affida la sopravvivenza alla caccia. Ma non è facile trovare carne sufficiente, magari si è catturata qualche lepre prima di abbattere i buoi muschiati sulla costa est; il massimo della fortuna è prendere una foca, allora c’è cibo per tutti: gli uomini possono sopportare anche un lungo digiuno, i cani no, digiuni si infiacchiscono, diventano aggressivi tra di loro.

Cominciato il viaggio ad aprile quando la luce è infinita, il ciclo del sonno e della veglia dipenderà sempre dai chilometri percorsi, perché si deve andare avanti a ogni costo, pena la morte, ma ogni azione richiede tempo, esperienza  e pazienza. Il ghiacciaio ferisce gli occhi, il vento è gelido, la temperatura scende a -34°, le tempeste di neve costringono la sosta dentro igloo costruiti al momento con blocchi di ghiaccio tagliati. Se non c’è tempo di scongelare le strisce di tricheco al caldo degli igloo e la fame morde, ci si attacca alla carne gelata, con tutti i suoi rischi, in attesa che la pentola offra qualcosa di più commestibile.

Il deserto di ghiaccio è uno spettacolo che cattura; il silenzio talmente profondo che può fare paura, serpeggia dopo tanti giorni la nostalgia di terra. Eppure l’arrivo sulla costa est a primavera avanzata non concede le sicurezze sperate, è difficile portare giù dal fronte del ghiacciaio slitte e cani e non è facile cacciare. La fame, sempre in agguato per uomini e animali, costringe a fare dei cani più stremati cibo per la muta, invece gli uomini digiunano nelle giornate di tempesta, quando fanno sosta. Si cercano col binocolo, avidamente, i buoi muschiati che sembrano da lontano “pietre vive”.

Ma gole piene di fiori si mostrano al di là del ghiaccio, sono sassifraghe, papaveri gialli, erica in fiore, api ronzano, volano farfalle, ragni tessono la tela: “non appena la morte lascia la sua presa inizia a vita”.

Il ritorno a settembre dei quattro esploratori, con materiale botanico, rilevazioni meteorologiche, rilievi cartografici, purtroppo con pochi cani, è vittoria e motivo di festa, nella consapevolezza che “l’esploratore trae nutrimento dalla selvaggia abbondanza della natura e si disseta nei grandi spazi. È sempre in cammino verso il meraviglioso”.

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.