29 Marzo 2025
Sun

Stefano Cavallini, Il crollo della regola (la gita), Habanera books, 2024

Il racconto della storia è lineare e “avviene” quasi sempre dentro l’ordito di una vita vissuta sotto la soglia di quella che Manlio Cancogni chiamava la coscienza pratica: Brilli, un docente di matematica, esiliatosi dall’insegnamento, si adatta, per non essere sfrattato, a fare sesso con una vicina, lontana da ogni forma di pensiero perché drammaticamente lobotomizzata dal luogocomunismo mediatico. Ovviamente il sodalizio, la manovalanza libidica, si fa presto insostenibile e il prof. fugge, trasferendosi nella casa di un amico da poco scomparso, con l’impegno di accompagnare il figlio di questi, Luca, alla maturità. Una volta raggiunto l’obbiettivo, Brilli e Luca vanno all’Isola d’Elba, dove il ragazzo si lega a una giovane la cui madre sta organizzando un pellegrinaggio a Lourdes per famiglie dell’aristocrazia nera della capitale, sopravvissute al “diluvio democratico”.

Segue una vicenda labirintica di truffe, raggiri e inganni, più un amore, che il vecchio insegnante, alla fine, traduce in una parodia caricaturale di un conflitto di classe tra popolo e potere religioso; ma perché lo scontro si realizzi, alla fine, è costretto a coinvolgere sconosciuti lavoratori, tradendo così la legge morale e le regole auree di tutta la sua vita.

Forse perché il movimento narratologico è visto come un brivido, come un sussurro, quasi come un brusio esistenziale dentro i personaggi, le pagine di apertura ci presentano un cielo per me dipinto da Constable. Le nubi, infatti, si trasformano sotto i nostri occhi in un racconto avvincente, in una geometria ora spigolosa, ora soffice che è clessidra del tempo, scenografia plastica per raccontare insoddisfazioni, lebbre psicologiche, tormenti che sono le armi di una guerra suggerita da sindromi in grado di raccontare stillicidi dolorosi dell’anima. Non a caso, subito dopo, lo sguardo del narratore, che, prima, era diretto ai frammenti, agli oblò empireali, indugia in modo attento sul pieno débraillé, fra sporcizia e orrendi afrori, che caratterizza la momentanea deriva borderline del suo protagonista. Forse, proprio per questo, in Cavallini, il paesaggio, a volte, si dipinge da solo, costruisce il suo “autoritratto simbolico” e sorprende l’autore. Intuiamo che lo scrittore, per questi miracoli di spiritismo delle parole, si paralizza, per ipnosi, e produce anche miracoli di inventiva involontaria.

I temi individuabili nel testo sono legati a quella che Cassola ha chiamato l’essenzialità dell’esistenza. Cavallini è stato in grado di descrivere e di far comprendere la tragicità minuta del nostro piccolo mondo antico, il carattere tumultuoso e, assieme, di indefinito silenzio, della storia contemporanea, quella che va dal crollo di molti dei pilastri politici militari e ideologici che avevano caratterizzato le inquietudini represse e abortite del secondo Novecento. Lo scrittore è riuscito a descrivere l’attuale condizione umana nel suo nucleo più essenziale: i turbamenti dell’animo umano, di fronte all’esistenza, in balia di quell’assurdo definito che, pensando a Camus, possiamo definire come “divorzio tra l’uomo e la sua vita”. Una articolata vicenda di esseri senza qualità, questa,  ricchi soltanto di confusi, deboli sentimenti soffocati nel claustro della coscienza tra la vergogna per l’impotenza e la trasformazione dell’ardimento in sconsolata disperazione. Aggiungo che, nel romanzo di Cavallini, molte sono le improvvise luci di una cultura preziosa e poco appariscente. Fra queste, Felix Grande che unisce in sé potenza, versatilità e profondità lirica.