24 Luglio 2025
Sun

Piero Salabè, Mortacci mia, La nave di Teseo 2025, pag. 384

È riuscito sicuramente a stupire Piero Salabè. Nato a Roma ma residente a Monaco di Baviera da trent’anni, con Mortacci mia ci porta sulle tracce di Pintor, un medico dedito alla ricerca, che in realtà dovrebbe essere deceduto – nel suo letto del Policlinico dove era ricoverato per demenza senile sono stati trovati i suoi occhiali, ma nessuna traccia di lui.

Fabio e Lara, due dei figli, non credono alla sua morte, e ne iniziano la ricerca nei locali del Policlinico ormai chiuso e abbandonato da anni. La casa di famiglia sta per essere svuotata e venduta, ma c’è ancora un grande tappeto azzurro, vecchio e con un buco in un angolo, dove Fabio rimane a lungo disteso a dormire, a pensare e sognare: lui è un letterato, non ha seguito le orme del padre.

Il percorso di ricerca del padre si snoda tra sogni, allucinazioni, ricordi, alternando pagine di diario di Pintor a elucubrazioni del figlio, a conversazioni con la sorella, con una prosa che si fa densa, pastosa come il cumulo di pensieri e di immagini che si affollano in testa, e affollano anche la pagina in libertà, come avviene nel linguaggio dei sogni.

Se la scienza è la cosa più bella al mondo secondo Pintor, questa convinzione ossessiva giustificherebbe ancora la sua presenza nelle stanze del Policlinico a portare avanti la ricerca, perché lui crede che “fatti non foste a viver come bruti”: secondo i figli lui ha finto la demenza, non si è arreso alla chiusura del Policlinico, come spinto da una ricerca di eternità, del superamento della soglia della morte, della sparizione, nel timore di essere dimenticato.

Tra i sogni che cancellano altri sogni e le visioni allucinate che sembrano incubi, la figura del padre si delinea, con la religiosità degli ultimi anni che lo vedeva in una chiesetta ogni mattina all’alba, col suo girare per casa ripetendo fatti non foste, con la sua tarda consapevolezza di avere messo se stesso al centro, con i tempi ridotti per la famiglia, con la irrequietezza e il suo male di vivere: comunque nel diario aveva scritto che voleva morire solo quando i figli fossero diventati adulti.

Se in sintesi questa è la trama, il romanzo di Salabé è come un viaggio agli inferi, una discesa nel paese di Alice e allo stesso tempo un percorso in una Roma sporca, ammorbata dai rifiuti, nella nostalgia di una bellezza e di una dignità scomparse, come sono scomparse le figure familiari degli artigiani che hanno popolato l’infanzia di Fabio: il giornalaio, il barbiere, il pizzicagnolo, nei cui negozi si imparava la vita.

Seguiamo i due fratelli in questa dimensione onirica, in un’estate romana rovente, lei con un camice bianco addosso e lo stetoscopio al collo, lui con un cappotto spigato del nonno, dentro i corridoi di un Policlinico che perde le dimensioni del reale, un labirinto infinito che si estende sopra e sottoterra, in cunicoli bui dove si incontrano figure surreali, dove i dialoghi diventano grotteschi, dove non si può entrare senza stivali, dove si vedono ombre oltre le pareti e si ascoltano le loro voci appoggiando alla parete lo stetoscopio; dove si sprofonda in un pozzo nero e profondo, chiaro rimando dantesco, come lo sono i misconosciuti chiusi nei loculi che anelano a una rivalsa per essere riportati su; come sono rimandi danteschi i vaticini sul futuro e le forme chiare di contrappasso.

La morte è il fulcro intorno a cui ruotano immagini, fantasie, elucubrazioni, e la necrosi investe anche i platani, si estende su tutta Roma che divora i suoi figli; intanto gli anziani malati vengono portati nei laboratori per la scienza dove si crede nella salus per mortem, la salvezza attraverso la morte, una forma di folle progetto eternità: iniettare la morte per far vivere per sempre!

C’è il pianto del mondo nelle lacrime e nella grida delle prefiche, ma da questo buio di morte in cui siamo trascinati si può uscire se riusciamo a sentire il dolore degli altri: alla fine il segreto del mondo che si evince da queste pagine sta nell’esortativo ama! al di sopra di ogni altra velleità.

Sono pagine magmatiche e deliranti che arrivano talora a livelli di grottesco tali da fare pensare che l’autore si voglia prendere gioco di chi legge, ma la tensione iperbolica che rasenta una tragica comicità si trasforma in una forma di elaborazione e sublimazione della scomparsa e della paura della morte.

Si sente una nostalgia diffusa in questo tentativo di dare di nuovo vita a chi non c’è più, una volontà di non lasciare andare, in un percorso che serve anche a capire noi stessi nel rapporto con gli estinti: “Di solito interpretiamo la volontà dei morti secondo il nostro interesse. Ne abbiamo bisogno, vogliamo che qualcuno ci abbia amato in un certo modo, che sia stato così e così perché la cosa ci rassicura e conferma. Ma forse chi muore non sa fino alla fine chi ha amato veramente, cosa volesse, persino chi fosse. L’inquietudine e gli enigmi che ci lasciano i morti sono un segno della loro vitalità, continuano ad accompagnarci con le loro domande, con quello che non hanno detto, ci fanno riconsiderare ciò che abbiamo vissuto assieme.”

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.