1 Agosto 2025
Sun

Andrea Magno, La forma del desidero, Arkadia Editore 2024, pag. 148

 

 

I versi di Andrea Magno si incollano addosso per la forza che contengono, per l’irruenza fisica che ne sprigiona: “da qui vedo il mare / che induce in tentazione / come i tuoi fianchi / che palesano desiderio”. Per la lotta di passioni opposte, entrambe assolute: “e ti odio / come ti ho amato / senza nessuna pietà / fortissimo”. Per il bisogno di gettarsi in ogni esperienza, di non tralasciare emozioni, sogni, anche se comportano dolore, perché sarebbe come rinunciare alla vita: “ti farò male / me ne farai, / non mi basterò / non ti basterai”. La fisicità è così forte che ottenebra la ragione: “non posso più / decidere di scegliere, / evitarti, non cercarti, / starti lontano, anima / non sente ragione, / e adesso, / adesso cosa farai di me?”

Li percorre, i versi, un vento con cui parlano le foglie, vento di passione e desiderio: “tra le tue gambe / soffia impunito scirocco, / è smodato e ragione dissolve, / è canaglia / e deliziosa passione accarezza”. Che accompagna una carnalità che nemmeno la vecchiaia riesce a smorzare: “Tacco dodici, / quel culo parla / nel silenzio dei miei occhi, / soffiando vento / infinita carezza”. Infatti “sono vecchio e ancora / rincorro illusioni / nello sconfortante delirio / di auspici spirati”.

C’è la terra e i figli di Sicilia con umori, colori e voci, col rumore delle onde, la marea che avanza, l’alba che sorge dalle acque, la pioggia avara, il sale pestato: “sarà sale pestato e sciolto / disperso nel mare / e forse la marea si abbasserà”, c’è l’urgenza di vivere la bellezza; “allora vieni da me / e balliamo, / scalza come sempre”.

Ma i versi di Andrea Magno contengono ben altro, perché “fu un illecito / quel tuo culo, / non feci in tempo / a non guardarlo / e mi fottesti”. L’energia vitale, la ricerca di piacere e di bellezza, diventano la via per reggere al dolore, ora che “è tempo di sassi in tasca”, perché “oltre l’alba che sorge / alla fine del mare, / questa notte sfacciata / presenta conto impietoso”.

Ed ecco la terra del dolore senza fine, in “questo mondo maledetto”, le “ossa sparse / e carne dolorante”, fianchi e mani e gambe e bocche e profumi di fiori sconosciuti, le croci ignote, la cruenta mattanza che nessuna pioggia potrà lavare, il mare che non ha paragoni quando è battuto dal vento che strappa le vele.

La voce si alza contro l’ipocrisia di parole vuote e di speranze insidiose, contro i “burattini presuntuosi” dal cuore di pietra: “Adesso andiamo in scena, / ma questa volta no / non in pasto alle fiere”. Si alza contro l’impotenza degli uomini che possono solo accompagnarlo, quel dolore, e l’indifferenza di dio: “Accade / di restare a guardare / dietro i vetri della finestra / il dolore in strada, / e dio / che sta sempre / nella stanza accanto / resta a guardare anche lui”.

Quella che potrebbe sembrare solo poesia dei sensi si trasforma in canto funebre davanti ai corpi portati dal mare: “È infame l’odore del sangue / sotto un cielo / ricolmo di vergogna, / mentre mare rigurgita lividi / disperdendo memoria”; è lamento per una terra che vede la diaspora dei suoi figli, terra riarsa, “terra omertosa che uccide i suoi figli”, terra su cui non scende nemmeno la pioggia sufficiente a lavare la vergogna.
Eppure è tanta la bellezza intorno, gli arcobaleni colorano il cielo, le nuvole vanno leggere, le albe hanno l’eco dei versi di Omero: “asciugava le prime gocce di rugiada / poggiate sui fiori del davanzale / mentre arrivava l’aurora”.

Cercando di costruire il presente, attendendo che arrivi il vento a diradare la nebbia delle coscienze, ecco che ci si affranca dai teatrali interventi di chi usa parole destinate a divenire cenere dispersa dal vento: in questo mondo stravolto dalla ferocia c’è posto ancora per la poesia? oppure è tornato il tempo di appendere le cetre alle fronde dei salici, per voto? Ci vuole forza per guardare oltre, per continuare a coltivare qualche speranza, grande è la nostalgia di ciò che è andato perduto: “si muore, / come farfalle / fuori dal bozzolo, / e nella pur breve vita / quanta bellezza.” La ribellione finale, dopo l’accusa, è il rifiuto del ruolo di poeta: “Dal ruolo di poeta / mi affranco, / sarebbe barare, / ipocrita paradosso / per vincere, / restano sassi in tasca”.

Lei, la donna a cui tornare senza colpa “come mare che consuma scoglio”, la fisicità, la passione, rappresentano la zattera per non andare a fondo, altrimenti siamo destinati a sentirci “cadaveri / in un non luogo, / cadaveri, / in questo mare / che non fa mai domande”. La donna è il “ventre che accoglie” che riporta la sicurezza del seno materno.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.