Andrea Magno, La forma del desidero, Arkadia Editore 2024, pag. 148
I versi di Andrea Magno si incollano addosso per la forza che contengono, per l’irruenza fisica che ne sprigiona: “da qui vedo il mare / che induce in tentazione / come i tuoi fianchi / che palesano desiderio”. Per la lotta di passioni opposte, entrambe assolute: “e ti odio / come ti ho amato / senza nessuna pietà / fortissimo”. Per il bisogno di gettarsi in ogni esperienza, di non tralasciare emozioni, sogni, anche se comportano dolore, perché sarebbe come rinunciare alla vita: “ti farò male / me ne farai, / non mi basterò / non ti basterai”. La fisicità è così forte che ottenebra la ragione: “non posso più / decidere di scegliere, / evitarti, non cercarti, / starti lontano, anima / non sente ragione, / e adesso, / adesso cosa farai di me?”
Li percorre, i versi, un vento con cui parlano le foglie, vento di passione e desiderio: “tra le tue gambe / soffia impunito scirocco, / è smodato e ragione dissolve, / è canaglia / e deliziosa passione accarezza”. Che accompagna una carnalità che nemmeno la vecchiaia riesce a smorzare: “Tacco dodici, / quel culo parla / nel silenzio dei miei occhi, / soffiando vento / infinita carezza”. Infatti “sono vecchio e ancora / rincorro illusioni / nello sconfortante delirio / di auspici spirati”.
C’è la terra e i figli di Sicilia con umori, colori e voci, col rumore delle onde, la marea che avanza, l’alba che sorge dalle acque, la pioggia avara, il sale pestato: “sarà sale pestato e sciolto / disperso nel mare / e forse la marea si abbasserà”, c’è l’urgenza di vivere la bellezza; “allora vieni da me / e balliamo, / scalza come sempre”.
Ma i versi di Andrea Magno contengono ben altro, perché “fu un illecito / quel tuo culo, / non feci in tempo / a non guardarlo / e mi fottesti”. L’energia vitale, la ricerca di piacere e di bellezza, diventano la via per reggere al dolore, ora che “è tempo di sassi in tasca”, perché “oltre l’alba che sorge / alla fine del mare, / questa notte sfacciata / presenta conto impietoso”.
Ed ecco la terra del dolore senza fine, in “questo mondo maledetto”, le “ossa sparse / e carne dolorante”, fianchi e mani e gambe e bocche e profumi di fiori sconosciuti, le croci ignote, la cruenta mattanza che nessuna pioggia potrà lavare, il mare che non ha paragoni quando è battuto dal vento che strappa le vele.
La voce si alza contro l’ipocrisia di parole vuote e di speranze insidiose, contro i “burattini presuntuosi” dal cuore di pietra: “Adesso andiamo in scena, / ma questa volta no / non in pasto alle fiere”. Si alza contro l’impotenza degli uomini che possono solo accompagnarlo, quel dolore, e l’indifferenza di dio: “Accade / di restare a guardare / dietro i vetri della finestra / il dolore in strada, / e dio / che sta sempre / nella stanza accanto / resta a guardare anche lui”.
Quella che potrebbe sembrare solo poesia dei sensi si trasforma in canto funebre davanti ai corpi portati dal mare: “È infame l’odore del sangue / sotto un cielo / ricolmo di vergogna, / mentre mare rigurgita lividi / disperdendo memoria”; è lamento per una terra che vede la diaspora dei suoi figli, terra riarsa, “terra omertosa che uccide i suoi figli”, terra su cui non scende nemmeno la pioggia sufficiente a lavare la vergogna.
Eppure è tanta la bellezza intorno, gli arcobaleni colorano il cielo, le nuvole vanno leggere, le albe hanno l’eco dei versi di Omero: “asciugava le prime gocce di rugiada / poggiate sui fiori del davanzale / mentre arrivava l’aurora”.
Cercando di costruire il presente, attendendo che arrivi il vento a diradare la nebbia delle coscienze, ecco che ci si affranca dai teatrali interventi di chi usa parole destinate a divenire cenere dispersa dal vento: in questo mondo stravolto dalla ferocia c’è posto ancora per la poesia? oppure è tornato il tempo di appendere le cetre alle fronde dei salici, per voto? Ci vuole forza per guardare oltre, per continuare a coltivare qualche speranza, grande è la nostalgia di ciò che è andato perduto: “si muore, / come farfalle / fuori dal bozzolo, / e nella pur breve vita / quanta bellezza.” La ribellione finale, dopo l’accusa, è il rifiuto del ruolo di poeta: “Dal ruolo di poeta / mi affranco, / sarebbe barare, / ipocrita paradosso / per vincere, / restano sassi in tasca”.
Lei, la donna a cui tornare senza colpa “come mare che consuma scoglio”, la fisicità, la passione, rappresentano la zattera per non andare a fondo, altrimenti siamo destinati a sentirci “cadaveri / in un non luogo, / cadaveri, / in questo mare / che non fa mai domande”. La donna è il “ventre che accoglie” che riporta la sicurezza del seno materno.