Distruggere Hamas per salvare i palestinesi
Yasser Abu Shabab offre di sé l’immagine di un uomo deciso a proporsi come alternativa concreta ad Hamas all’interno della Striscia di Gaza. Trentuno anni, leader del gruppo armato palestinese delle Forze Popolari, beduino della tribù Al-Tirah, risponde al telefono da Rafah quando è già calata la notte. A tradurre le sue risposte in inglese, in collegamento, un interprete di origine siriana della Ong americana Center for Peace Communications. Abu Shabab parla ma alterna pragmatismo politico e richiami al senso di una realtà tribale. Ribadisce la rottura totale con Hamas, che accusa di aver portato distruzione e sofferenza al proprio popolo. Ma esprime anche frustrazione verso l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), che ha fin qui ignorato la realtà delle tribù.
Abu Shahab, lei afferma di guidare un movimento «pragmatico e non ideologico». Che cosa significa?
«Per il bene del nostro popolo, indipendentemente dalla sua religione, il nostro movimento mette al primo posto gli interessi palestinesi ed è totalmente estraneo all’ideologia della violenza estrema e al terrorismo».
In che modo l’approccio del suo gruppo alle relazioni con Israele differisce da quello di Hamas?
«Hamas ha un approccio sanguinosamente aggressivo nei confronti di Israele, mentre noi lo consideriamo un nostro vicino con cui abbiamo bisogno di vivere in pace e persino di scambiare relazioni. Abbiamo tanti feriti e ci serve l’assistenza medica da parte israeliana. Dobbiamo avere un rapporto sano con loro».
Siete in contatto con organizzazioni internazionali, Ghf o altre Ong, o con le agenzie delle Nazioni Unite che operano attualmente a Gaza?
«Abbiamo qualche rapporto con organizzazioni internazionali come quelle che ha menzionato, ma è un rapporto di base, ci coordiniamo su alcune questioni».
Da dove provengono le vostre armi?
«Per noi della tribù Al-Tirabin, che abitiamo nella regione del Sinai, avere armi come gli AK-47 è normale, tutti le portano con sé. Quello che ho fatto è stato riorganizzare ciò che prima era una dotazione individuale spontanea in una struttura armata che ha sottratto anche membri di altre famiglie che rifiutano il governo di Hamas e ciò che Hamas ha inflitto al popolo palestinese. Le armi provengono dai nostri depositi tribali».
Che tipo di rapporto immagina con l’Anp? È disposto a collaborare con loro o, come Hamas, fanno parte del passato e vanno superate?
«Siamo partiti come movimento anti-Hamas e purtroppo non abbiamo ricevuto alcun sostegno dall’Anp. Non vogliamo che Gaza sia governata da un regime islamista o da qualsiasi tipo di regime autoritario. Abbiamo chiesto all’Anp di aiutarci ma loro non ci hanno teso la mano. Per questo invito tutte le famiglie di Gaza a unire le forze. Possiamo creare un consiglio di transizione per governare Gaza. Perché dovremmo aspettare l’Anp? Non ci ha fatto nulla».
E ci sono altre famiglie anti-Hamas a Gaza pronte a con dividere i vostri obiettivi?
«Sì, ci sono molte famiglie che sono contro Hamas, tra cui molte persone pronte a combattere. Ciò che ci sta rallentando è il fatto che dobbiamo migliorare la zona sicura in cui ci troviamo. Abbiamo creato più punti medici, più centri di distribuzione di aiuti dove le persone possano mangiare e le loro famiglie, così che possiamo prendere il controllo e ripulire le aree da Hamas».
Recentemente, 17 paesi, tra cui Arabia Saudita, Qatar ed Egitto e la Lega Araba hanno firmato una dichiarazione al le Nazioni Unite che chiede ad Hamas di disarmare e cedere il controllo di Gaza all’Anp, con possibile dispiegamento di forze di stabilizzazione straniere. Per voi è un’opportunità?
«Noi chiediamo una Gaza democratica, pace e coesistenza. Quindi, per ora, siamo soddisfattí della dichiarazione dei 17 Paesi. Il futuro dovrebbe essere deciso dalla popolazione di Gaza, attraverso elezioni e la scelta dei propri rappresentanti e del proprio governo. Abbiamo bisogno che la nuova generazione venga a governare Gaza».
In un recente editoriale affidato alle pagine del Wall Street Journal, ha chiesto denaro, aiuti umanitari e corridoi sicuri agli Stati Uniti e agli stati arabi. Che cosa offrite in cambio?
«Siamo il primo movimento che, dall’interno di Gaza, ha rifiutato il governo di Hamas ed è riuscito in molti casi a sconfiggerlo e a proteggere una piccola area che ora sta diventando un rifugio per molti gazawi. Ed è per questo che chiediamo di rendere ufficialmente protetta quest’area umanitaria, in modo da poter continuare a ripulire completamente tutte le zone da Hamas».
Durante il disimpegno israeliano da Gaza e l’ascesa di Hamas lei aveva 15 anni. Che cosa ricorda di quel periodo?
«Prima che Israele se ne andasse, mio padre lavorava negli insediamenti israeliani e ci garantiva un buon reddito per noi e per la famiglia. Dopo, la prima cosa che ricordo da bambino, è che abbiamo perso questa fonte di reddito e abbiamo dovuto lavorare nell’agricoltura a Gaza per un certo periodo. Poi abbiamo visto la miseria di vivere sotto il dominio di Hamas. Ero un cittadino comune. Ho lavorato nell’edilizia. Ma mi sentivo impotente. Che cosa si può fare quando si vive sotto un regime tirannico?».
È preparato a una possibile guerra civile a Gaza?
«Non c’è bisogno di guerra civile qui. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è qualche aiuto da parte di altri Paesi. Noi possiamo prendere il controllo di ciò che resta di Hamas, ridotta ormai a pochi sostenitori. Questi combattenti irriducibili non si arrenderanno finché non moriranno. Combattono in diversi quartieri, si nascondono tra i civili, ma alle gente non piacciono. Sanno che stanno portando la distruzione su di loro. Possiamo facilmente liberarci di loro, senza bisogno di una guerra civile».
Avete informazioni sulla sorte degli ostaggi israeliani?
«I nostri valori di esseri umani ci obbligano a proteggere e salvare chiunque sia oppresso e viva in condizioni disperate e forzate. Quindi, ovviamente, sarei lieto se avessi informazioni».
Che cosa ne pensa della situa zione della fame nel resto della Striscia?
«Qui siamo tornati a vivere dentro case. Abbiamo elettricità e tutti i beni essenziali. Se Hamas stesse alla larga dagli aiuti umanitari, la gente starebbe molto meglio. Hamas ha allargato la sua rete per cercare di appropriarsi di tutti gli aiuti che arrivano per immetterli sul mercato nero e riverderli. È questo ormai il loro unico modo per ottenere finanziamenti».
[di Fabiana Magrì – La Stampa]