31 Ottobre 2025
Sun

Fulvio Mozzachiodi, La luna orba, Edizioni ETS 2025

Non mi capita mai di leggere, prima del testo, prefazioni e postfazioni, non per il timore di rimanerne condizionato, ma perché preferisco farlo dopo, a conoscenza del testo avvenuta. Questa volta, forse per i nomi del pre e del post fattore, a loro insaputa da me conosciuti, ho violato una delle mie regole ferree e ho fatto bene. Ci sono tracce e intuizioni, nelle due porte del testo (ingresso e uscita) segni e orme che non sono individuabili a prima vista. Ci vuole pazienza per trovarle, e una rivisitazione poetica della dialettologia e dei severi criteri di indagine che “guardingano immusoniti” dalle righe plissettate, cernierate dell’opera. Mi riferisco in parte alle atmosfere che attengono alle orme foniche della lingua ligure e gli indugi sui caratteri del paesaggio nel suo scarto tra simbolo e poesia.

Apparentemente, La luna orba potrebbe sembrare una delle tante storie legate a variopinte ricostruzioni di un percorso esistenziale che si scrivono, un po’ per riviverle, un po’ per documentare e, soprattutto, per farle rimanere nell’immaginario collettivo prima che la memoria scompaia con noi e oltre noi. Insomma, una scelta scritturale per fare il punto quando il periodo rock della nostra vita si è chiuso ed è iniziata la stagione della “disperazione calma” o del sopraggiungere nel nostro animo dei colori struggenti e crepuscolari dell’autunno. E invece non è così.

Il romanzo di Mozzachiodi rimanda a più generi: ha i tratti del romanzo storico, alcuni caratteri della narrativa di formazione, della memorialistica (convivono, dentro l’ordito narrativo, verità, congetture e invenzioni, compresa la mobilità della voce narrante, quella di Tilàn, inquieta e curiosa, nella staticità e immobilità di un mondo ricco di leggère profondità) e molto, direi, del romanzo-saggio. Sì, perché il plot illustra insieme l’esaurimento del romanzo di formazione (la bildung è complessa ma scarsamente funzionale ai fini della vicenda) e l’ibridazione progressiva tra saggio e narrazione, con una prevalenza dell’atemporalità del primo sulla temporalità della seconda. Tutta l’azione, in sostanza, è legata ai tre aspetti “della disgregazione dell’intreccio, della revisione della categoria di tempo, e del rilievo strutturale assunto dall’impianto raziocinante”. Ma c’è a mio avviso anche un aspetto di fascinosa raffinatezza che pluvia improvvisamente nell’opera.

Il romanzo racconta vicende che emergono e prendono forza dall’archeologia resistenziale in un luogo della Liguria che, come ogni angolo di quella regione, miscela liricamente le diverse asprezze del suo sublime: la forza pulviscolare del mare, le rocce come sculture di alpinisti sospesi tra il campo base e la vetta; boschi leggeri come aquiloni in corsa verso le chiari nubi di un cielo corsaro.

Si parla di lotte sessantottine, di socialismo e di un mondo compreso tra i tempi lenti della civiltà popolare degli anni Quaranta e la triste rivoluzione antropologica del consumismo descritta da Pasolini. Dentro, in evidenza la luce storica ancora potente della Resistenza. E proprio in questo è nascosta la fascinosa stranezza di cui ho parlato poco fa.

Il protagonista vero è una persona sottratta alla vita, e alla vita della Storia, attraverso la tecnica della dissolvenza; è una figura che la reticenza, l’omertà riservata di una cultura civile hanno reso mitica agli occhi dello scrivente: lo zio Riccardo, scomparso durante la guerra, mai più tornato perché morto in un campo di concentramento tedesco. La sua sottrazione all’oblio, sul piano della tecnica narrativa, avviene attraverso una lieve, morbida climax con un vero e proprio aprosdokèton o, per usare un termine più di moda, plot twist nella parte conclusiva.

Una fonte potrebbe essere, ce lo indica lo stesso autore, il film La strategia del ragno di Bertolucci, non ovviamente per coincidenza di trama, ma per osmosi di Mito, il Mito della Resistenza, dei Piccoli maestri. Carattere questo, fra l’altro, proprio della generazione dei nati nel periodo che va dal dopoguerra alla prima metà degli anni Cinquanta, quelli che sentivano la mancanza della guerra senza cedimenti, senza debolezze, a viso aperto (Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia! Gridiamo a tutta forza:/ Pietà l’è morta!) contro il nemico assoluto, sulle montagne e nei GAP delle città, la guerra appunto che era stata combattuta dalla generazione dei padri.

Un libro da leggere con la mente libera da gioghi ideologici per capire il nostro tempo, i nostri pregiudizi, le nostre speranze e delusioni, per comprendere anche la dignità e la mancanza di ostentazione di chi più che giudicare ha sentito il bisogno di comunicare, di spiegare.