2 Dicembre 2025
Words

Cecchini per gioco. Inferno Sarajevo

Cecchini turistici. Safari della morte. Tariffario umano. Fucile di precisione.

Sono parole che vorrebbero descrivere razionalmente azioni che non hanno modo di essere comprese. Lo chiamava “orrore” Conrad in Cuore di tenebra (ripreso poi da Marlon Brando nel finale di Apocalypse Now), ma in questo caso siamo oltre.

Qui si fatica a riconoscere di appartenere alla stessa specie, perché anche se l’uomo non è buono per natura e se la violenza fa parte del nostro temperamento animale, l’essere abietto che paga per andare a uccidere per gioco un altro essere umano non può far parte del consesso sociale.

Caino uccide il fratello Abele per gelosia. Alessandro Magno uccide l’amico Clito per rabbia e ubriachezza. Perfino Himmler e Stalin rispondevano a un’etica: quelle oscene e terrificanti del nazismo e del sovietismo che hanno fatto milioni di morti. Eppure non erano un gioco.

Non so come sia possibile che un essere possa pagare decine di migliaia di euro per andare al safari umano e partire dalla cucina di casa propria, una casa dove ci sarà un frigorifero con le stesse cose da mangiare che ci sono nei frigoriferi, delle sedie, una cassetta postale, un letto, una tv e uno specchio in bagno dove controllare il rasoio che scorre sotto il mento e taglia la barba.

Gestivano questo schifoso circo (vorrei dire diabolico, ma anche il diavolo ha una sua dignità) militari serbi che provvedevano a trasportare in elicottero i cecchini turistici in zona militare.

Poi ci si apposta in un luogo sicuro da dove si osservano bene le prede giù in fondo, si imbraccia il fucile di precisione, si accosta il mirino all’occhio buono. Pum, militare, 60mila euro. Pum, civile adulto, gratis. Pum, bambino, 100mila euro.

Sarajevo sta al fondo di un catino. Intorno a questa meraviglia urbana, c’è una collana di alture che incombono sulla città. Da lì sopra i serbi hanno messo sotto assedio il luogo più facile del Mondo da mettere sotto assedio. 1425 giorni ufficiali di assedio contro la multietnicità di Sarajevo, un nome che non dovremmo mai stancarci di dire: uno strascico di Seconda Guerra Mondiale a due passi da casa.

Quando sono arrivato in città nell’estate del 1999 c’era ancora il puzzo della guerra. Parcheggiata l’auto davanti alla segreteria del Festival del Cinema, mi incamminai verso la piazza del mercato, che era stata protagonista di uno degli eccidi più odiosi mai visti: i cecchini prendevano la mira con i loro fucili col cannocchiale ad alta precisione e uccidevano i cittadini che erano andati a comprare qualcosa nella piazza del mercato. La gente cadeva a terra come pere cotte. Qualcuno ferito si rifugiava dietro le cassette della frutta, alcuni correvano, altri rimanevano immobili terrorizzati.

Svoltato un angolo vidi passare un’utilitaria a velocità sostenuta in una strada urbana piuttosto stretta. Inchiodò a 30 metri da me, davanti all’entrata di un bar. Dal finestrino uscì un braccio che impugnava una pistola. Sparò 4 colpi. Sgommò e fuggì. Ero ancora sul marciapiedi appiccicato al muro. Sul marciapiedi davanti una vecchia restò ferma col carrellino della spesa, due ragazze correvano via, un signore era accucciato e teneva le mani sulla testa di qualcuno. Dal bar uscirono due uomini urlando, tenevano in braccio una ragazza che intanto aveva lasciato una striscia di sangue in terra. Fermarono una macchina che stava passando. Caricarono la donna e sparirono lungo la strada, sfrecciando e suonando il clacson.

In questo posto che non era più una città, dove alcuni edifici (come la stazione centrale e la biblioteca) erano bombardati e altri bucherellati dai proiettili peggio di un groviera, ci sono stati dei viaggi di divertimento, chiamati “safari della morte” in cui alcuni esseri pagavano molti soldi per far fuori persone inermi, che diventavano, come in un luna-park dell’orrore, soltanto obbiettivi, bersagli, pezzi di corpo. Pum, una gamba. Pum, una spalla. Pum, il torace, il cuore. Bersaglio colpito. Obbiettivo terminato.

Questa dei cecchini di Sarajevo è la cosa più riprovevole, infame e merdosa che abbia udito nell’arco della mia esistenza.