Guðrún Eva Mínervudóttir, Reykjavík,amore, Iperborea Editore 2025, pag. 256
Ci sono tanti destinatari di amore, le persone prima di tutto, a partire dai figli, il partner, tutti i familiari, ma si ama il luogo dove siamo nati e cresciuti, la nostra casa d’infanzia, gli oggetti che hanno avuto e hanno un posto importante nella nostra vita, a cui magari sono legati i ricordi; si amano gli animali che teniamo vicini. Si ama un dio, sa c’è la fede. Amore implica accoglienza senza pregiudizi, nelle relazioni significa rispetto della libertà altrui: tutte queste e tante altre espressioni d’amore si leggono nelle storie di Guðrún Eva Mínervudóttir, che non dimentica scorci delle sue montagne innevate e del mare, e al cui sguardo e sensibilità non sfuggono né gli aspetti esteriori, né l’anima dei personaggi. Se quelli femminili sono al centro delle storie, quelli maschili sono altrettanto ben caratterizzati, nella personalità e nel modo di vivere le relazioni.
Le donne dei cinque racconti di una delle più note scrittrici e poetesse islandesi contemporanee, sono creature che cercano e vogliono l’amore, capaci di riconoscere la sicurezza di un rapporto di coppia, ma anche fluttuanti nelle relazioni, oggettive nel saperle valutare e riconoscerne i limiti, pronte a emozionarsi di nuovo e a viverle, quelle emozioni, senza timore di giudizio; talora attratte da personaggi originali, talmente diversi da risvegliare pulsioni profonde.
Guthríthur è una giovane dallo spirito libero, frutto di una relazione fugace, con una madre aperta a incontri con uno straniero di un centro profughi molto più giovane di lei, che vive il momento con curiosità quasi infantile. Non molto incline alle carinerie, la donna ha accolto una gatta randagia, ma il suo amore di madre sta in poche parole: “tu sei l’orgoglio della famiglia”. La figlia non dimentica una lontana mattina d’infanzia: “Ma quella volta la mamma venne in bagno con me, mi insaponò dolcemente i capelli, li sciacquò e mi asciugò con un asciugamano grande […] Prima di mettermi la maglietta fece su di me il segno della croce…”. E la saluta con un bacio prima di lasciarla andare nella mattina estiva.
Hildigunnur ha un bel rapporto col marito: entrambi acuti nell’interpretare le parole, le azioni, i sogni, si completano a vicenda: “Tu mi correggi il tiro,” dice lui a lei, ogni volta che Hildigunnur fa il bastian contrario alle idee del marito. Eppure un giovane missionario mormone, dai capelli rossi di fuoco, dagli occhi blu scuro, “carnagione color latte, immacolata. I tratti del viso regolari, virili. Le labbra con l’arco di Cupido pronunciato. Un accenno di barba color rame”, suscita in lei tanta attrazione che accetta addirittura di partecipare a un incontro sulla Bibbia, per rivederlo: lo stupore del marito davanti a questa scelta non condiziona la sua libertà, ma proprio grazie a questa libertà lei riconosce l’assurdità del tutto.
Johanna e Jonas si sono appena sposati, lei sente “un brivido lungo la schiena” solo se lui le sposta i capelli per accarezzarle il collo. Ma l’incontro con lo zio di una cara amica, “una mela marcia” come lo ha definito la nipote, le sconvolge i sensi: dal fascino sottile, con un passato pieno di rischi, gentiluomo e personaggio bohemien che la ammalia con i suoi racconti, la affascina a tal punto che le ruba i pensieri, e non lo dimentica, ma soffre in silenzio dopo la sua morte. Jonas l’ha attesa, comprensivo, anche quando lei ha trascorso la notte fuori; la coppia ha resistito, ma lei è stata attraversata come da un uragano, non è più la stessa, e la relazione col marito passa “da un’infanzia felice a un’agitata adolescenza.”
Sara invece è una creatura sofferente che ha vissuto due relazioni da cui ha avuto dei figli, ma ha sperimentato la violenza tanto da portarne i segni addosso. Ora lavora in una fabbrica di cioccolato, ha una cara amica che la capisce e le sta vicina, i figli sono la sua ragione di vita. Non abituata alla felicità né alla libertà, le scopre per la prima volta, piano piano, quando va a cena dall’amica: “devi andare e basta,” le dicono i figli, “non vai mai da nessuna parte”. Una nuova consapevolezza di sé le fa scoprire la bellezza di ogni attimo, senza proiettarsi nel futuro: sono, lei e l’amica, in un magazzino a comprare un materasso: “Rannveig le sorrise e si sdraiò sul letto più vicino a lei […] Portava un paio di scarpe con la suola sottile che si adattavano perfettamente alla forma del suo piede. […] Mi piacevano. Mi distesi al suo fianco. I due commessi erano lì accanto e nell’aria c’era una specie di allegria contagiosa.”
Con la storia di Magga si chiudono i racconti, una donna che è stata colpita da una malattia irreversibile che la consuma, ma che non le toglie la forza di afferrare tutta la gioia che può. La presenza della morte ha attraversato i racconti, senza tuttavia togliere il gusto della vita, ma ora quella presenza, imminente, rafforza la voglia di gioire. In maniera circolare qui si riaffacciano i mormoni, anzi, quello stesso Austin dai capelli rosso fuoco che aveva turbato Hildigunnur: tenaci e fiduciosi nella loro fede, collaborativi, non si arrendono nemmeno davanti alla morte: “Vuol dire che sta per morire? Per noi non cambia niente”. E magari a chi legge scappa un sorriso.