David Bowie muore
La carriera di David Bowie è stata folgorante. Quasi cinquanta anni di palcoscenico come stella del pop mondiale. Il 10 gennaio (due giorni dopo il suo 69esimo compleanno) il “duca bianco” è morto di cancro. La sua popolarità era un misto di musica e glamour. E il suo atteggiamento nel mondo del pop-rock è sempre stato contraddistinto più dalla parte iconica che da quella prettamente musicale. In sostanza, come solo Madonna dopo di lui, Bowie ha sempre attratto più per le sue performance pubbliche, per i suoi travestimenti, per la sua singolarità d’immagine che per la vera e propria genialità della musica: un piccolo musicista nei panni di un grande personaggio.
Fin dagli inizi possiamo comprendere come la sua carriera sia stata contraddistinta soprattutto dalla sua grande capacità manageriale di gestire la sua figura pubblica e dallo spiccato acume nel trovare, ogni volta, i collaboratori più bravi e in voga del periodo. Non è un caso che per Space Oddity appunto, ci sia stato un primo contatto di ascolto delle proposte di Bowie con George Martin, produttore dei Beatles. Infatti, quell’album risente inesorabilmente delle atmosfere melodiche del quartetto allora più famoso del mondo. E anche il produttore ufficiale di quel disco, Gus Dudgeon (che veniva da una gavetta nel blues, con Eric Clapton, John Mayall, Ten Years After), si adattò benissimo al pop bowian-beatlesiano, tanto che quell’esperienza fu così ficcante per Gus che negli anni successivi vomitò tutti quegli arrangiamenti pop nelle canzoni di Elton John. Ma anche il grande album concept di Ziggy Stardust risente in maniera eclatante degli echi dei “fab-four”, pensiamo solo alla famosissima canzone “Starman”. Non fu un caso, neanche in questo lavoro che il produttore, Ken Scott, fosse stato uno degli ingegneri del suono di tanti album registrati dai Beatles ad Abbey Road. Ma David Bowie fu un mago quando intuì come la musica stava cambiando proprio con l’avvio degli anni Ottanta. E allora andò a pescare il più visionario costruttore di suoni dell’epoca, Brian Eno. Fu con lui (o verrebbe meglio da credere che fu Bowie a cantare in un album di Eno e non Eno a suonare e produrre un album di Bowie) che il grafico, appassionato di moda e cartellonisitica pubblicitaria, David Robert Jones (in arte Bowie) ritrovò la spinta per dare un segno di stile anche nel decennio del punk e del jazzy, con l’album Heroes, vera pietra miliare del suo percorso artistico, ma anche con gli altri due album della trilogia di Berlino: Low e Lodger. E se guardiamo anche all’ombra quasi sempre presente nel lavoro di David Bowie non possiamo non fare i conti con tutti i debiti che la musica del duca bianco ha nei confronti della fucina beatlesiana. Il nome dell’ombra di Bowie è quello di Tony Visconti, che lavorò tanto a Abbey Road ed è stato il vero costruttore sotterraneo dei ponti che legano la carriera di Bowie con quella di tanti altri artisti inglesi e americani. In seguito Bowie si accorge che la metà degli anni Ottanta significa per i giovani tornare alla spensieratezza e al gioco, invece che alla politica e all’impegno e quindi vira verso sonorità più danzerecce. È così che va a scomodare Nile Rogers degli Chic per farsi produrre Let’s Dance. Il progetto Tin Machine inaugura gli anni Novanta e trova di nuovo Bowie sul fronte del mainstream, con qualche margine di anticipo stavolta, nei confronti di un ritorno ai suoni “duri e diretti” del rock (un gusto che il grunge stava rivisitando in salsa nordamericana). Nel corso del decennio successivo il passaggio al pop più conclamato lo tiene ancora a galla, esempio ne è l’album Heathen, fatto col produttore di Cher e Tina Turner, Brian Rawling. Poi è storia di oggi. Uscito il giorno del suo 69esimo compleanno, appena qualche giorno fa, a distanza di 48 ore dalla sua morte, quest’ultimo lavoro Blackstar sarà un’opera che probabilmente venderà più di tanti vecchi album di Bowie. Lui, una delle più grandi icone pop del Novecento, che saluta il mondo tornando tra le stelle da dove era partito.