15 Novembre 2024
Words

La guerra delle monete

George Soros ha previsto che nel 2016 avverrà una crisi finanziaria perfino più grave di quella del 2008, che peraltro si era già manifestata due anni prima, con la bolla immobiliare USA (come si può vedere benissimo nel geniale film di Adam McKay, La grande scommessa).
Le crisi ormai sono solo finanziarie perché quelle produttive in Occidente non avvengono più: le imprese produttive globali si sono trasferite, con i loro capitali, in Oriente e noi stiamo, come dicono i romani, a “morire di pizzichi”, ovvero di fame. E ci tocca anche una quota di Piccole e Medie Imprese che sono 4,5 milioni tra industria e servizi, con ben il 65% di queste che sono letteralmente senza dipendenti. Un Paese “fai da te”.
Ma qual è, in questo contesto tutt’altro che positivo, il ruolo del mercato dei petroli, che regge di fatto il petrodollaro e i sistemi fiscali europei? Complesso, e molto politicamente determinato. Nessun mercato rilevante in termini globali è privo di scelte strategiche e geopolitiche statuali.

Cosa farà l’Arabia Saudita, al centro del mercato dei petroli di questi anni, operatrice del flusso di petrodollari che Kissinger, insieme con Re Fahd, organizzò dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973, quando Egitto e Siria lanciarono il loro attacco su Israele?
Oggi il barile di petrolio vale circa 37 Usd, di contro ai 56 del gennaio 2015. Ciò implica che, per la prima volta nella sua storia recente, il regno wahabita degli Al Saud andrà in default entro il 2020, secondo un recentissimo report del Fondo Monetario Internazionale. Prima quindi che gli USA divengano davvero autonomi, anche per l’esportazione, con il loro shale oil and gas, che già li ha riportati ad avere un’estrazione di idrocarburi annua, da due anni, maggiore di quella del regno saudita.
Oggi Riyadh ha una caduta, del suo Pil, incredibile per la sua storia, del 15%, che ha già causato una diminuzione delle spese pubbliche di Riyadh per arrivare a 98 miliardi di deficit. Il Regno oggi esporta sette milioni al giorno di barili, con i ricavi petroliferi che sono il 90% delle entrate e il 40% del Pil.
È ovvio: questo livello produttivo e di prezzo rende il rapporto Dollaro Usa/moneta saudita irragionevole e insostenibile, e quindi è sempre più probabile una caduta dei titoli finanziari nell’anno appena iniziato. Ciò crea, sempre in Arabia Saudita, la diminuzione delle riserve monetarie per sostenere i suoi cambi, il che non può non aggravare la situazione.

La caduta dei titoli petroliferi ha comunque diminuito la fiducia globale degli investitori internazionali, che sono sempre meno disposti a immettere capitali, mentre Riyadh è coinvolta in ben quattro guerre, tutte per procura contro l’Iran: Yemen, Siria, Iraq, Libia, e questi sono costi ma anche investimenti sull’egemonia del petrolio globale.
Tanto diminuisce il prezzo del barile, tanto più aumenta la guerra interna ai membri dell’OPEC per acquisire i giacimenti altrui. Il budget militare dei sauditi è oggi, significativamente, di 213 miliardi di riyal, mentre le riserve petrolifere intanto entrano nei mercati per sostenere, a prezzi stracciati, la spesa pubblica (antiterrorismo + diversificazione) del regno saudita. Un’accoppiata ormai ingestibile.
Intanto, la domanda di energia nel Regno aumenta del 7,5% ogni anno, vale a dire che, addirittura, i sauditi saranno importatori netti di petrolio entro il 2030. E a quel punto è già troppo tardi.

Ecco il motivo geoeconomico della lotta tra i sunniti capeggiati dall’Arabia Saudita, e gli sciiti diretti dall’Iran. È una guerra, iniziata proprio quando il prezzo del barile si abbassa, per chi avrà l’egemonia sul mondo islamico, petrolifero, nei contatti con i consumatori occidentali.
Se salta la relazione tra moneta saudita e dollaro, allora la finanza nordamericana non può più gestire i prezzi petroliferi, e allora i russi e i cinesi, con i loro paesi mediorientali di riferimento (Iran, Siria, Libano) tenteranno di definire un nuovo prezzo e un nuovo mercato del greggio.
Lo collegheranno a un paniere di monete (fu la proposta del governatore della banca di emissione di Pechino nel 2014) e a una nuova procedura di definizione dei prezzi. Favorendo (se l’ingenua geopolitica UE lo permetterà) l’Euro rispetto al Dollaro, e facendo entrare nel mercato globale dei capitali sia il rublo che il renmimbi, previa liberalizzazione degli scambi monetari e delle riserve nelle loro monete.
Già oggi la Cina fa ottimi sconti a chi, in Africa o in America Latina, accetti di commerciare in moneta cinese, mentre i contratti di riferimento russi, tra poco, saranno in rubli e saranno negoziati in una borsa russa. Apertissima ai capitali stranieri, ci mancherebbe, ma sempre con moneta di Mosca.
Il potere delle divise monetarie deriva dall’estensione dei mercati che le accettano. E tanto più una moneta è “estesa” tanto più espande i suoi mercati e tratta prezzi unitari minori, per tutto.
Altro che la teoria della “dimensione ottimale della moneta” di Mundell, che fu il fondamento della pericolosa scommessa dell’Euro.
Qui, per parafrasare Mao Zedong, sono i soldi che corrono sulle punte delle baionette, e le giustificano. Possedere la moneta in cui operiamo vuol dire possedere i beni che con questa moneta sono scambiati. Alla fine, per Mosca, l’ideale sarà la fine del “petrodollaro”, e si tratta comunque del maggior produttore di petrolio al mondo, ovvero la Russia.
Saranno anni formidabili, i prossimi.