15 Novembre 2024
Culture Club

Addio a Ettore Scola

“Se tu mi lasceresti”, Ettore, sarebbe davvero un brutto scherzo. Ma non succede, lo so, «se fa tanto pe’ di’». Tu ci servi, ci serve sapere che ci sei. Serve a ciascuno di noi, serve a questo paese che ha bisogno di gente come te. E tu per fortuna ci sei: la morte è uno scherzo stupido, una burla da Marc’Aurelio. Dicono che anche Il Giovane Holden, Tadzio, Don Chisciotte, il capitano Achab e Gregorio Samsa non esistano più. Ma non ci ho mai creduto, è evidente che non è così. Chi inventa storie meravigliose ha la stessa vita eterna delle storie che inventa. Si fanno sogno e dolce memoria, rifugio e sicurezza. Creatore e creato diventano la stessa cosa. Non riesco a parlare di te al passato. Perché non lo accetto e perché so che nulla è passato.
Non le nostre telefonate per scherzare e commentare il mondo, per dirci dei film visti e di quelli che ci erano restati nel cuore, non sono passate le nostre cene, la tua festa degli ottanta anni a casa mia, i dvd dei tuoi film che ti regalavo perché tu non li avevi, non sono passati gli abbracci e quei discorsi sulle tue figlie e sui nipoti che ami tanto. Non è passato il giorno che ho fotografato all’Albertelli le pagelle tue e di Fabiano e te le ho mandate, non i convegni, le riunioni, le campagne elettorali, i comizi, né il governo ombra del quale facevi parte e che solo tu, Ettore, potevi accettare fosse guidato da un presidente che si chiama Achille. Non è passata quella sera che andammo a Napoli per cenare con Marcello sapendo che sarebbe stata l’ultima volta, né il pranzo con Federico a Piazza Margana. Non sono passati i compleanni a casa di Gillo e non è passata l’ultima volta che ci siamo visti, la settimana scorsa, un film e una cena, tra le cose migliori della vita.
Ettore è un compagno vero, nel senso grande, profondo che questa parola ha avuto per generazioni di italiani. Agli stolti o ai fanatici la difficoltà di capire che, nel nostro paese, quella parola ha avuto e ha un significato particolare. È significata fratellanza, comunanza di disagi e valori, voglia di fare un mondo più giusto. Certo, quella parola ha portato anche il fardello delle ideologie che sono la negazione del dubbio che a Ettore è sempre piaciuto tanto. E Ettore, non per caso, ha accompagnato tutte le trasformazioni della sinistra. Ma è sempre rimasto un compagno, parola che viene da cum panis, colui con cui si divide il pane. Mario Rigoni Stern, parlando della Resistenza in cui ci si chiamava compagni non per fede ideologica , diceva: «Ecco, noi della Resistenza siamo Compagni perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche, insieme, vissuto il pane della libertà che è il più difficile da conquistare e mantenere».
Ettore è stato compagno del pane della libertà, per tutta la vita. Era uomo attraversato dalla più fantastica delle energie: il dubbio, l’autonomia intellettuale, il desiderio di scoprire il nuovo. Ettore non si è fermato in nessun porto, non ha mai ammainato la vela del suo meraviglioso viaggio, che ci ha chiamato a fare con lui, capitano generoso che raccontava, nelle notti stellate, storie fantastiche alla ciurma.
All’editore Di Salvo, tronfio nelle sue certezze borghesi, fa dire desolato, proprio alla fine del viaggio di ricerca di Titino: «Non ho le idee chiare». Ed era il 1968, un tempo in cui tutti pensavano di avere le idee chiarissime.
A Oreste Nardi, compagno comunista fa chiedere, segretario di sezione: «Senti, il fatto che Adelaide mi tradisca con un macellaio ricco, in che misura si può inserire nella battaglia del partito per una società di liberi ed eguali?». Ed eravamo molto prima che si scoprisse la nuova dialettica tra pubblico e privato.
Al capitalista sfrenato di C’eravamo tanto amati fa esclamare una massima che sembra lo spirito del tempo di oggi: «Chi vince la battaglia con la propria coscienza vince la guerra con l’esistenza».
In La Terrazza racconta il travaglio del Partito Comunista prima che se ne ammettesse persino l’esistenza. Ettore, come dice un personaggio di C’eravamo tanto amati, era più oltre. Era libero e appassionato, ciò che oggi viene considerato un ossimoro.
Come poteva non essere «più oltre» un uomo che univa alla cultura classica, quella che lo stava portando in questi mesi a rileggere i miti greci, la coscienza dell’importanza di Cino e Franco, di Verne, di Salgari, dell’Uomo mascherato e della musica popolare? Come poteva non esserlo chi ha inventato, scrivendo la sceneggiatura de Il Sorpasso, la scena in cui, ai giovani sacerdoti che hanno bucato la ruota dell’auto e parlano solo latino, Vittorio Gassman dice, scusandosi, «Non habemus cric»? O chi ha creato il poetico personaggio del ragioniere marchigiano che, portato in Angola dal suo capufficio, alla fine sbotta e dice: «Fatecelo provare anche a noi un po’ di questo consumismo. Io ho la Cinquecento , lei la Rolls Royce». O chi, in C’eravamo tanto amati fa lo scherzo a Fellini di mandargli sotto un sedicente ammiratore che spegne il sorriso di Federico dicendogli: «Posso stringere la mano al grande Rossellini?».
È stato un intellettuale che divideva il suo pane con il pubblico. Non uno di quelli che odiano gli esseri umani perché, in fondo amano, narcisi, solo se stessi. E forse questo spiega le ragioni dell’affetto che ha accompagnato , fino a qui, oggi, il suo lavoro e la sua vita.
Ho ritrovato una sua frase pubblicata in un libro su di lui che mi regalò venti anni fa, con la dedica «A Walterino , che conosce il mio cinema meglio di me».
«Credo nei momenti di felicità. E ritengo che ognuno possa cercarseli e trovare ovunque, anche nel quotidiano, nel suo privato, senza paura di essere banali. Riprendere in mano un libro che ami, apprezzare le gioie di ogni giorno, cautelare l’armonia con le persone con cui vivi, stare con i nipoti, se sei nonno, disegnare se sai disegnare – e anche se non lo sai -, rivedere un amico, ricordare, progettare, non per dere curiosità e interesse. Questa mi sembra la strada possibile per aumentare i momenti di felicità».
Ettore è stata la persona, al di fuori della mia famiglia, a cui ho voluto più bene in tutta la mia vita. Credo lo avesse capito, credo lo sapesse. Ma oggi qui voglio dirglielo forte e chiaro, come se glielo gridassi alla stazione mentre sta partendo il treno e il suo volto, affacciato dal finestrino, si allontana. Che faccia il suo viaggio come ha vissuto, sorridendo e pensando, cosciente che ha seminato del bene in ciascuno di noi e che ha trascorso una vita meravigliosa.
Ettore è, per la storia, il nome di un eroe sconfitto. Per me, invece, è quello di un vincitore della vita vera.