Paolo Poli, senza tempo
La prima volta fu un’apparizione favolosa, degna delle sue Wande Osiris. Estate 1985. Aeroporto di Smirne, Turchia. Ero reduce da ore e ore di viaggio in macchina, in compagnia di un’amica. Un caldo spaventoso. In aeroporto non c’era aria condizionata e il termometro era oltre i quaranta. Eravamo stanchi, sfatti. Come noi, tutti i passeggeri in procinto di imbarcarsi per Roma: sudati, incapaci di muovere un dito, per via dell’afa insopportabile. In quella selva di facce attonite, lineamenti scomposti, indumenti fradici e gualciti, solo una camicia di lino celeste, maniche lunghe e colletto allacciato, splendeva come una promessa, solo un volto spiccava fresco e riposato: era lui, il perfetto Paolo Poli senza un capello fuori posto. Ci chiedemmo – tutti, non solo la mia amica e io, ma l’intero scalo di Smirne: come farà con questo caldo?
Meravigliosa fedeltà a se stesso di un grandissimo attore che era prima di tutto un finissimo critico letterario (le sue letture di Queneau, Palazzeschi, Parise…)
Dopo l’apparizione di Smirne, tutte le volte che ci si è precipitati a vederlo a teatro, sempre così asciutto e inappuntabile, anche sotto le parrucche più insensate e clamorose. Sempre quella fedeltà atemporale, meravigliosamente fiorentina… E’ stato uno dei geni del teatro italiano novecentesco, al pari – secondo me – di Eduardo e Carmelo Bene. Avrebbero meritato – ognuno di loro – un premio Nobel ad hoc: non per la letteratura o il teatro, ma per qualche disciplina tutta loro, segreta e insieme lampante come le loro vite. Oggi, di quel calibro lì, cioè di quella vastità, rimane solo Franca Valeri.
Addio Paolo Poli. L’ultima volta è stata un mese fa, più o meno. A Roma, in via del Governo Vecchio. Stava salendo su un taxi, io passavo per caso. Ho detto a alta voce, perché mi sentisse: “Salutiamo il sommo maestro”. Ha accennato un mezzo sorriso, poi mi ha fatto una boccaccia.